martedì 3 ottobre 2017

L'unicità dell'incisione raccontata da Mario Benedetti

"In calcografia non c'è una stampa uguale all'altra perché ci sono tantissime variabili, basta che il foglio sia più asciutto, oppure non avere pulito bene il cliché con la tarlatana che il segno cambia. Nella serigrafia invece, tutte le stampe sono uguali, è un dato di fatto." MB

Mario Benedetti con la moglie Zlata mostra la sua opera: "Incombenza".

Premessa importante
Tony Graffio non è un critico, ma un operatore culturale che con le sue interviste, fotografie e ricerche vuole scandagliare il mondo dell'arte per capire il perché di certe cose, come per esempio quali sono i segreti del successo di un artista, le sue tecniche, il messaggio che desidera lasciare e gli eventi che lo hanno influenzato nella sua opera creativa, o anche nel corso della sua vita privata.  Oltre che cercare di posizionare l'uomo, o la donna che ha vissuto una determinata esperienza, nel contesto culturale della propria epoca andando ad estrarre da quell'ambiente le notizie e le informazioni che spesso i mass-media o i narratori ufficiali non ci raccontano. Approcciare gli artisti, apparentemente, non è particolarmente complicato, perché ognuno di loro è interessato a farsi conoscere meglio, anche al di là del mondo degli addetti ai lavori, dei collezionisti, degli studiosi, degli appassionati e del loro solito entourage, ma riuscire a carpire quei dettagli che possono mostrarci la verità del loro vissuto non è semplice. 
Per scelta, la forma del dialogo registrato e l'incontro di persona con l'intervistato sono i metodi che prediligo per riuscire a cogliere quegli aspetti di spontaneità e autenticità che altrimenti sarebbero impossibili da far emergere. 
Probabilmente, questo è uno degli aspetti più apprezzati dal pubblico di "Frammenti di Cultura" che sa, e può intuire facilmente che le mie interviste non sono filtrate o addomesticate da terze parti; anche se nel caso di artisti noti ed abituati a far trapelare soltanto una certa immagine dal loro personaggio, c'è sempre il tentativo di supervisionare i contenuti, o correggere alcune parti per ammorbidire alcune dichiarazioni.
Ovviamente, per me uno degli aspetti interessanti di questa ricerca documentaristica non sta soltanto nel chiedere notizie relative al personaggio intervistato, ma nell'incrociare le dichiarazioni degli artisti che si conoscono o che sono entrati in contatto tra loro, vuoi per motivi professionali, politici, personali, sociali, economici o altro. Non è facile far accettare all'artista queste curiosità, sia perché molti non vogliono parlare di altri, sia perché c'è sempre il timore di dire qualcosa che possa disturbare qualcuno e si sa che nell'ambiente artistico l'idea che si dà di se stessi è molto importante, se non fondamentale.
Quando si incontrano personaggi di rilievo e d'esperienza è difficile limitarsi ad affrontare un solo argomento, si vorrebbe sapere tutto e le domande inevitabilmente si moltiplicano. A discolpa di alcune critiche che mi sono state mosse da persone che ritengono che io mi dilunghi troppo in certi argomenti che possono sembrare poco coerenti, ribadisco ancora una volta di propormi al libero pubblico come un documentarista indipendente. Non sono un curatore, uno storico dell'arte e nemmeno un critico pagato per metter in buona luce un nome piuttosto che un altro; a me interessano le storie vere, vissute da chi ha qualcosa d'interessante e particolare da raccontare e insegnare ad altri ed è con questo spirito che scrivo e continuerò a scrivere. Ringrazio tutti coloro che apprezzano questa mia visione personale del mondo dell'arte e mi sostengono con il loro incoraggiamento morale. Quando scelgo un artista per i miei articoli/racconti/documenti, lo faccio senza interessi di alcun tipo, al di fuori di quelli funzionali alla narrazione ed alla disponibilità che incontro nelle persone che ascolto. Normalmente, scelgo di illustrare ogni genere di disciplina artistica, in questo caso parlerò di incisione e tecniche calcografiche con l'artista che idea e realizza le opere, anche con l'intento di dire qualcosa di interessante, sia per i neofiti che per gli esperti. Può essere che in futuro torni su questi argomenti e che voglia nuovamente ascoltare il Maestro Mario Benedetti che ha un'infinità di episodi interessantissimi da raccontarci e segreti tecnici da svelare. Al solo scopo informativo, trovo giusto citare un suo bellissimo libro, forse l'unico veramente completo e capace di spiegare alla perfezione che cos'è l'incisione e la calcografia: "L'arte della Calcografia, storia, tecnica, ricerca". Edito e distribuito da Fondazione Mudima.

L'arte della Calcografia di Mario Benedetti, molto più che un manuale.

Breve presentazione dell'artista

Mario Benedetti incontra per la prima volta la calcografia quasi per un caso fortuito, quando nel 1962, in occasione di una mostra sul libro d'artista, conosce Giorgio Upiglio il quale lo invitò a visitarlo nel suo laboratorio di via Fara 9, a Milano. All'epoca Benedetti non conosceva ancora questa tecnica artistica che oggi padroneggia alla perfezione, essendo diventato negli anni uno dei più importanti nomi che praticano questa disciplina, in Italia e nel mondo. TG

Mario Benedetti, 79 anni, artista, incisore e stampatore.

Intervista al Maestro Mario Benedetti

Tony Graffio: Mario, che cosa ti è successo la prima volta che sei andato a visitare il laboratorio di Upiglio? Hai avuto una specie di folgorazione?

Mario Benedetti: A quei tempi ero molto giovane e conoscevo poco l'incisione calcografica. Come prima cosa, Upiglio mi diede in mano una lastra dicendomi di graffiarla; non capivo i principi di questa tecnica. Ho cominciato così a fare quello che mi diceva Giorgio, poi ha fatto una prova di stampa e mi ha invogliato a proseguire. Si è reso conto, non solo della mia passione, ma spero anche della mia attitudine e mi ha spinto a continuare in questo campo. Nei primi anni ’70 risale il mio approccio più indipendente a questa tecnica quando ho allestito il mio primo laboratorio calcografico.

TG: Che cosa è per te la calcografia?


MB: La calcografia è una tecnica ben precisa che amo moltissimo. Ho subito iniziato a sperimentare vari materiali: dal ferro, al rame, allo zinco, continuando negli anni ad occuparmi di questa tecnica. Ho avuto nel corso della mia carriera varie opportunità e alla fine degli anni ’80 in occasione dei miei primi viaggi in Danimarca e Norvegia ho conosciuto un grande stampatore danese, Niels Borch Jensen che mi ha invitato nel suo laboratorio di Copenhagen, dove ho potuto realizzare le mie prime opere calcografiche di grandi dimensioni. Il rapporto con N. B. Jensen è continuato fino ai nostri giorni.


Mario Benedetti estrae alcuni fogli di grande formato da un cassetto per mostrarmi le sue opere.

TG: Cosa intendi per grandi formati?

MB: Come vedi, sono stampe che arrivano, con lastre di metallo accostate, a dimensioni anche di 2 metri di lunghezza. Jensen è un grandissimo stampatore e conoscitore di varie tecniche, ed è di una maestria incredibile. A Copenhagen mi sono abituato a lavorare nel suo attrezzatissimo laboratorio dove soggiornavo per una decina di giorni lavorando intensamente. Sono riuscito a realizzare delle stampe che in Italia credo ci sarebbero grandi difficoltà per stamparle. La stamperia 2RC, conosciuta in Italia e all'estero, ha eseguito stampe di grandi dimensioni con tecniche miste.

TG: Esiste ancora questo laboratorio?

MB: Credo di sì, è dove hanno stampato in grande formato, fra i tanti, Victor Pasmore, Francis Bacon, Alberto Burri, Chillida, e tanti altri artisti. Per esempio, riguardo la stampa di Bacon vorrei fare alcune considerazioni di tipo tecnico. Bacon personalmente, credo, che non avesse praticato l’incisione, e quindi si affidava a provetti stampatori.

TG: Qualcun altro ha realizzato le incisioni e le stampe di Bacon?

MB: La 2RC ha fatto le selezioni dei colori, suppongo da una diapositiva, ed ha realizzato questa stampa che non ha visto l'intervento diretto di Bacon. Ciò non vuol dire niente, se Bacon l'ha accettato va bene. Il discorso sulla calcografia è molto vasto, e nel campo dei specialisti ampiamente trattato.

TG: Adesso, c'è questa tendenza?


MB: Si. Se l’artista non conosce la tecnica, mi ripeto, si affida allo stampatore. Molti sono gli artisti che accettano queste condizioni. La calcografia è un'altra cosa. Accetto anche una fotocopia, se è finalizzata al progetto; non è che io sono contro una tecnica o un'altra, dico solo che ci vuole chiarezza, altrimenti non si capisce più niente. Firmare una serigrafia in 15 esemplari secondo me è un assurdo, in quanto le puoi stampare in centinaia e centinaia di esemplari, senza modificare la qualità della stampa, al contrario della calcografia.

Un'opera di piccole dimensioni di Mario Benedetti.

TG: In che senso? Non bisognerebbe firmare in basse tirature?

MB: La firma e la numerazione è un problema sorto nel mercato moderno. E' dal primo '900 che gli artisti firmano e numerano le opere grafiche. Una volta non si firmava e non si numerava. Fino a che la lastra regge va bene, e si continua a stampare. La firma e la numerazione è una convenzione nata con l'avvento del mercato che asserisce che di una certa stampa ci sono in circolazione un certo numero di copie disponibili, in modo che, teoricamente, l'acquirente è così più invogliato a comprare. Meno copie in circolazione significano più valore. Ma sono tutte... convenzioni.

TG: Ci sono artisti che rispettano effettivamente le tirature dichiarate?

MB: Ma certo che ci sono! Non sto generalizzando. Dico che soprattutto in Italia c'è questa prassi. Suppongo che sia solo malcostume... Recentemente, ho parlato di questo argomento con Maurizio Calvesi che è uno dei pochi studiosi che conoscono la calcografia, anche perché è stato direttore della Calcografia Nazionale, a Roma. Posso accennare anche a Carlo Bertelli e Andrea Emiliani che hanno avuto esperienze dirette con l’incisione. Altri studiosi che conoscono la storia dell’incisione sono a volte sprovveduti dal punto di vista della tecnica in questa disciplina.

TG: Una volta in Italia non c'era una grande scuola di incisione e calcografia?

MB: Come no? C’è ancora!

TG: Com'è possibile allora che non ci sia più la conoscenza relativa alle tecniche adottate dagli artisti? E che molti si siano dimenticati dell'incisione?

MB: Si sono persi certi saperi, con l'avvento del digitale i giovani hanno preso altre strade, forse perché l'incisione richiede molta fatica e tempi lunghi. Non sempre si riescono a trovare i materiali giusti e spesso è anche costoso realizzare certi lavori, ma resta il fatto si possono fare cose straordinarie con questa tecnica. Ho avuto l’occasione durante gli anni dell’insegnamento di tecniche dell’incisione di incontrare molti giovani studenti e artisti che hanno trovato proprio con questa disciplina il linguaggio idoneo per esprimersi. Ho sempre sostenuto la tesi che, per la propria natura, l’incisione è andata a pari passo con lo sviluppo tecnico e tecnologico. Molto s'è perso nel tempo, ma per fortuna c'è un recupero di queste conoscenze. A Milano, per esempio, ultimamente sono nati laboratori dove si applicano nuove tecniche e metodi di stampa.

TG: Chi sono?

MB: Di solito sono gli ex-studenti di varie accademie di belle arti. A Milano, una di loro è Daniela Lorenzi; mentre a Bergamo ci sono Christian Boffelli e Cinzia Benigni. I giovani poi sono molto bravi a mischiare le tecniche tradizionali con quelle digitali e a trovare nuove strade per ottenere certi risultati. C'è Monia Pavone che ha lavorato fino alla morte di Upiglio con lui, nel suo laboratorio. Anche lei è molto brava. Tra i miei ex allievi ricordo con piacere anche: Muriel Merzaro; Laura Manfredi a Como; Zoltan Kis a Budapest e Norbert Gebauer in Austria. Io concepisco lo stampatore, non solo come uno che fa andare il torchio, ma come una persona che collabora alla fase creativa. Potrei citarti centinaia di nomi, ma tieni presente che molti erano studenti stranieri con i quali ho perso completamente ogni contatto.

TG: Raccontami qualcosa della tua vita. Dove sei nato? Come hai passato la tua infanzia?

MB: Sono nato a Terni nel 1938 e ho trascorso i primi anni dell'infanzia e dell’adolescenza in varie città dell'Emilia e della Lombardia, in particolare a Cremona. Alla fine degli anni '50 mi sono trasferito a Milano dove ho frequentato il Liceo Artistico di Brera. La mia famiglia era numerosa. Da studente ho soggiornato e lavorato alcuni mesi in Svizzera. La mia famiglia non mi ha mai ostacolato nelle mie scelte, ma credo che la mia formazione sia avvenuta a Milano intorno agli anni '50, '60.

TG: Frequentavi ambienti artistici? O qualche circolo?

MB: Per quel che riguarda le frequentazioni di quegli anni, non si può più fare un confronto e non mi piace fare il nostalgico. La Brera di allora non era quella di oggi come pure le stesse vie del quartiere, l'ambiente artistico, il circondario... Frequentavo l'Accademia senza nemmeno essere iscritto. Mi recavo, per esempio, nell'aula di Marino Marini; se lui era presente potevo scambiare due parole con facilità. C'era un contatto diretto con gli insegnanti. Tra Accademia e Liceo Artistico c'erano 300 persone, quindi i rapporti docenti/studenti erano più facilitati.

TG: Adesso ci sono sono più di 4000 iscritti solo in Accademia...

MB: Era un altro mondo. Dico questo senza voler fare confronti che adesso sarebbero assurdi. Oggi, giustamente, i giovani hanno altri interessi. C’è una nuova generazione. di giovani e giovanissimi che ha chiuso i conti, non dico con il passato, ma con un modo di essere a partire dagli anni’80. La mia generazione si muove, credo, in un'altra dimensione, dove il fare è ancorato a schemi e tecniche che non sono per me obsolete, ma senz'altro non collimano con un modo di essere oggi, e non mi riferisco solo al modo del fare, ma soprattutto a quello del gestirsi e del proporsi. Mi piaceva molto anche la fotografia ed il cinema.

TG: In che modo ti sei occupato di queste arti visive?

MB: Io ero appassionato di cinema, ho lavorato molto in Super8, meno con il 16mm, per via dei costi. Ho viaggiato molto. Ho seguito una troupe cinematografica in Brasile in Minas Gerais per una produzione brasiliana, ed al mio ritorno in Italia ero diventato un po' velleitario prendendo confidenza con il mezzo di riproduzione fotografica che mi ha portato poi alla manipolazione del fotogramma filmico e alla produzione in proprio di alcuni brevi filmati in super 8 e 16 mm.

TG: Li hai ancora?

MB: Sì, ma vorrei che rimanessero solo un episodio biografico per l’interesse che nutrivo per il film di carattere sperimentale, più che narrativo. Questo interesse non mi allontanava dalla pittura o dall'incisione o dal disegno. Ho sempre disegnato tantissimo ed alternavo i vari generi delle arti visive. Anche ora sto portando a termine alcuni progetti che ho in corso da più di vent'anni: una installazione con le opere in piombo e con opere su carta, e contemporaneamente sto dipingendo. Non faccio molte distinzioni tra una tecnica ed un'altra. Ho lavorato molto anche in sintonia con gli architetti, Alcuni lavori sono andati a buon fine, altri no, come per esempio un'istallazione di 5 metri d'altezza che doveva essere installata alla Bicocca. Ho lavorato molto con il cemento e il piombo.

TG: Quali artisti hai frequentato nella tua giovinezza?

MB: In via Brera era facile conoscere e frequentare gli artisti, era un altro mondo. Molto dipendeva dal fattore generazionale. La maggioranza di loro come Ceretti, Romagnoni, Vaglieri e Guerreschi e altri avevano tre, quattro anni più di me, anche più, e ciò accentuava le difficoltà nel relazionarsi, in quanto c'era un piccolo stacco generazionale... Subentrava una certa timidezza nel confrontarsi con alcuni artisti. Conoscevo molti artisti: da Marino Marini, a Korompay a Bologna. A Urbino frequentavo Renato Bruscaglia, un grande maestro dell'incisione, ed altri. Direi che allora fu più facile entrare in contatto con i colleghi. Ricordo un episodio: ad una mostra di Cardazzo, alla galleria Naviglio, in via Manzoni, c'era l’inaugurazione della mostra di Mirò. Ero giovanissimo e guardavo incantato un quadro mentre Mirò era in ufficio con Cardazzo. Ha notato la mia attenzione, è uscito e mi ha chiesto: “Ti piace?”. Sì, mi piace – non avevo capito che me lo stava chiedendo Mirò stesso - “Perché ti piace?” - Mi chiese ancora. Era fantastico che un grande artista dedicasse la sua attenzione ad un giovane che guardava una sua opera! Ho un vivo ricordo di Aldo Carpi, un grande maestro, un grande direttore dell'Accademia... E' stato un mito per l'Accademia, un uomo straordinario anche sul piano umano.

TG: Era un’artista di origine ebrea che era stato internato in un campo di concentramento durante la Seconda Guerra Mondiale?

MB: Sì.

TG: Ho capito chi era... Me ne hanno parlato anche altri docenti di Brera.

MB: Dopo anni che non lo vedevo, un giorno lo incrocio tra via Brera e via Fiori Scuri… e lui stranamente mi riconosce. “Ciao, io ti conosco” - dice lui – “Sì, sì professore, ci siamo visti spesso in Accademia” – dico io - “Bene, vieni con me...” Mi porta in una libreria che era in via Brera, vicino al colorificio Pellegrini. “Vieni che ti regalo un libro!” Io sono rimasto sorpreso. Mi regalò: “Ritorno da Gusen”. Gusen era un campo di concentramento nazista, lui s'è salvato perché disegnava, però lì gli hanno ammazzato parte della famiglia. Era un uomo che portava dentro di sé una grande tragedia. Aveva molti figli. Ho letto il libro in un fiato. In tutta la narrazione non ha mai fatto il nome di chi l'ha denunciato; ha messo solo l'iniziale. Questo, per farti capire che personaggio era sul piano umano. Alla fine del libro conclude il suo racconto dicendo che quell'uomo era un poveraccio. Non è che volesse giustificarlo, ma aveva capito con chi aveva a che fare.

TG: Non gli ha voluto dare importanza.

MB: Chissà! Forse! Ma la sua reazione è stata di una umanità straordinaria. Quando ho iniziato la carriera artistica ho avuto i primi rapporti di lavoro con una galleria a Torino e poi con altre a Milano, dove ho avuto sollecitazioni che ne a Cremona, e neppure a Bergamo a quei tempi avrei potuto avere. Ho cominciato in quegli anni ad insegnare al Liceo artistico di Bergamo.

TG: Come sei arrivato a Bergamo?

MB: Questa è una domanda interessante. Come già ti ho detto lavoravo con la Galleria Martano di Torino. In quello stesso periodo Martano per ragioni di lavoro spesso veniva a Bergamo. Io non avevo mai visto Bergamo; e in uno di questi suoi viaggi ci incontrammo in Piazza Vecchia di Città Alta. La città mi parve meravigliosa. Martano la identificò come il posto ideale per cercare uno studio, che a quei tempi non era difficile trovare. Infatti, in poco tempo mi trasferii da Cremona a Bergamo.

TG: Con Lorenzelli hai avuto un buon rapporto?

MB: Avevo più che altro rapporti di stima, e ho sempre seguito l'attività della galleria Lorenzelli, sia a Bergamo che a Milano.

TG: Tra Bergamo e Brescia ci sono molti collezionisti?

MB: Sì, anche se preferiscono acquistare le opere di artisti dalla grande nomea, e inseriti nel mercato. Ciò non toglie che ci sono anche parecchi collezionisti degli artisti locali.

TG: Ma la Biennale di Venezia ha ancora un valore?

MB: Per molta gente sì. Certo che non è una domanda facile alla quale rispondere... In queste grandi mostre si trova sempre qualcosa di interessante e di coinvolgente.

TG: Ho sentito che ultimamente c'è chi fa manovre un po' strane per arrivare in Biennale, specie nei padiglioni minori... Tu che cosa ne pensi?

MB: No, non credo. Il sistema dell'arte è molto complesso e, secondo me, legato soprattutto al mercato, alle grandi istituzioni nel campo, alle riconosciute case d’aste e a conosciuti collezionisti. Ritengo che un artista valente non sia disponibile a strane manovre per arrivare in Biennale e poi, non è detto, che chi viene contattato abbia sempre il potere di farlo, in quanto ci sono delle commissioni che decidono. Conosco bene lo statuto della Biennale, ero amico di Malcolm Hardy, direttore del British Council che curava la Biennale nel padiglione inglese negli anni ’70 e ’80 e curava mostre istituzionali per l'Inghilterra. I padiglioni dove si svolge la rassegna di arte contemporanea sono extraterritoriali, il padiglione inglese è territorio inglese e così via. Nel caso avvenisse uno sgarro in quel padiglione, dovrebbe essere il Regno Unito a preoccuparsene. Credo che anche per i padiglioni minori come tu li definisci, ci siano in vigore dei patti diplomatici, perché è normale che tutte le nazioni aspirino ad avere un loro spazio alla Biennale di Venezia. Così, come a Kassel o alla Biennale di San Paolo che io conosco bene per avervi partecipato. La Biennale di San Paolo merita però un discorso a parte, perché era stata fondata nel 1951 da un miliardario italo-brasiliano: Ciccillo Matarazzo che ne era il proprietario e finanziava tutto. E' ovvio che se tu conoscevi Matarazzo potevi essere invitato a quella manifestazione… Queste sono cose che a me interessano relativamente, io tendo ancora ad andare in una galleria per vedere quello che mi emoziona e interessa. Oggigiorno subentrano spesso dei valori creati sia da parte dei collezionisti che di operatori nel campo dell'arte che hanno nulla a che vedere con i valori autentici… o sarò un romantico, ma tendo ancora ad andare in una galleria per vedere quello che mi emoziona. Ti racconto un piccolo episodio, ma non faccio nomi. Incontro in città un grosso collezionista d'arte bergamasco, conosciutissimo a livello nazionale, al che mi invita ad andare con lui a Milano, da De Carlo, una galleria d'arte abbastanza importante fondata una trentina d'anni fa. Arrivati all'ingresso della galleria vedo un quadro che mi aveva scioccato in senso negativo. Anche il mio interlocutore mi dice di trovare quell'opera molto brutta, ma dopo aver visionato anche il resto delle opere esposte in galleria, riferendosi al primo quadro mi dice: “Quasi quasi lo compro.".

Ridiamo.

Ho incontrato Mario Benedetti in una giornata caldissima d'agosto.

TG: Come erano le biennali degli anni '60?

MB: E' sempre illuminante rileggere: "Le oscillazioni del gusto" di Gillo Dorfles, un saggio scritto quasi 50 anni fa che ci fa capire come i gusti cambino e perché quello che era bello ieri non lo è più oggi, e il contrario. Ricordo che alla Biennale del 1964 c'era un clima particolare dovuto alla novità portata dalla Pop Art ed dagli artisti americani che si apprestavano a imporre la loro arte al mondo, grazie al grande potere della loro nazione. A quell'epoca, in Italia si risentiva ancora del Piano Marshall. La rivoluzione artistica degli anni '60 non era solo opera di Leo Castelli, però, secondo me, era la conseguenza di accordi politici ed economici ben precisi. Quando De Gasperi andò in America per parlare della ricostruzione del nostro paese, venne informato che non sarebbe stata solo una questione industriale ed economica, ma anche culturale. L'Italia avrebbe dovuto favorire le arti provenienti da oltre oceano, come il cinema, il teatro, l'editoria e tutto il resto, per incrementare il mercato americano anche in quei settori. Detto questo, non è che tutto sia brutto sul mercato... La Pop Art è stato un fenomeno straordinario.

TG: In quell'epoca l'Italia aveva un ruolo internazionale!

MB: L'Italia è un museo a cielo aperto, per cui rimane comunque un polo d’attrazione e che non riguarda solo il passato.

TG: Non trovi che questo paese abbia un po' perso la sua importanza negli anni? Sia a livello politico che culturale intendo...

MB: Non sarei così pessimista. In Italia c'è una situazione più che altro confusa, però alcuni valori, ci vengono ancora riconosciuti. Te ne accorgi quando viaggi all'estero.

TG: Certo che la Biennale di Venezia, rispetto a 50 anni fa, è tutta un'altra cosa. Adesso è forse più importante partecipare ad Art Basel che alla Biennale di Venezia, non trovi?

MB: Ancora oggi la Biennale di Venezia è un polo di attrazione internazionale, anche se le varie fiere d’arte sparse per il mondo danno l'impressione di una diffusione dell’arte, ma invece credo che siano più che altro il riflesso del mercato. Sicuramente, molto dipende dai curatori. Quest'anno non sono ancora stato a Venezia; anni fa ho visto la mostra di Sgarbi, ma è come se non l'avessi vista. C'erano centinaia di quadri appesi uno sopra all'altro come in una quadreria. In mezzo a tutta quella confusione è difficile identificare qualcosa di interessante anche se, a mio parere, si trova sempre qualcosa. Quest'anno so che c'è la mostra di Damien Hirst, mi hanno detto che è scioccante da un punto di vista tecnico, perché per fare delle opere gigantesche è subentrata l'industria. Cosa che in scenografia cinematografica e tecnica teatrale si usa fare diffusamente da molto tempo. Può essere affascinante vedere come un artista con il supporto dell'industria riesca ad ottenere degli impatti straordinari. Perfino nelle mostre collaterali ci possono essere delle cose belle, anche se il termine bello non mi piace più perché impreciso.

TG: Hirst è raccontato in modo da rendere le sue storie in qualche modo plausibili con filmati che fanno vedere le opere ripescate dal mare. Ha un grosso supporto che gli conferisce credibilità... E' coinvolgente e tutto questo ti lascia affascinato e stupito, ma è arte?

MB: Io e mia moglie ci chiediamo spesso dove si trova il limite, anche in letteratura. Hirst è realmente un caso interessante, o no? Da un punto di vista socio-culturale, può darsi; ma costruire a regola d'arte un fenomeno è un fatto positivo o negativo? Per il mercato è un fatto senz'altro positivo. Per chi compra e per chi vende...

TG: E per la cultura?

MB: Non lo so. Lo vedremo tra 30 anni ciò che rimarrà.

TG: Infatti, questo è il discorso da fare.


Mario Benedetti si è trasferito da poche settimane in questo nuovo laboratorio di Bergamo.

MB: Vorrei accennare ancora alle due biennali che mi hanno particolarmente colpito: quella di Venezia nel 1964 e nel 1968 quando alcuni artisti coprivano o voltavano i loro quadri. Non solo a Venezia: sono andato a San Paolo del Brasile, dopo, e lì è avvenuta la stessa cosa. Anche in modo peggiore, perché c'erano i poliziotti con i mitra in mano puntati verso la Biennale. Entrambe le biennali hanno lasciato il loro segno, sia in sens in senso negativo che positivo. Io ero molto giovane, ma ho ancora in mente quando ho visto i lavori di Mark Rothko, Roy Lietchenstein o Rauschemberg: quelle opere mi hanno molto coinvolto e mi hanno regalato delle emozioni che porto con me anche ora. All'epoca ero molto apprezzato da Mario De Micheli, da Mario Micacchi, da Antonello Trombadori, da questi critici molto politicizzati che mi pubblicavano spesso su Rinascita, su L'Unità ed altri giornali. Ricordo la polemica di quando Gino De Dominicis aveva messo un giovane con la Sindrome di Down sul palco. Era una cosa impressionante, ma non so spiegare in che senso. Certo, faceva effetto vedere violentare un ragazzino e metterlo in mostra come se fosse un fenomeno da baraccone. Ma non tutto è negativo, perché De Dominicis nel tempo ha fatto anche cose interessanti.
TG: La questione è proprio questa: non è che l'arte contemporanea è diventata in gran parte uno spettacolo?
MB: Certo, lo è! E' quello che vogliono e lo dicono anche.
TG: L'artista deve stupire, anzi che creare qualcosa che abbia senso ed abbia una sua estetica?
MB: Ci può essere uno spettacolo diverso! Per esempio, fare un'incisione, tu che in parte conosci quest'arte e lo sai, è qualcosa di molto speciale. Io impiego più tempo a fare un'incisione di grandi dimensioni che un quadro, proprio perché ci sono dei tempi morti. C'è l'azione dell'acido; il metallo che non reagisce; quando piove la morsura avviene in tempi diversi di quando fa caldo, sono tutti fenomeni che risentono di mille variabili: la stampa, la prova di stampa; la carta che non riceve bene l'inchiostro. Sono tutti problemi che alla gente non interessano. Tutto ciò per me è spettacolare in quanto l’opera è sempre l'unica protagonista sulla scena del fare!
TG: Adesso ci sono le stampanti digitali, anche in 3D...
MB: Ho sempre avuto un profondo rispetto per le tecniche e i materiali della tradizione, ma anche una certa attenzione e una costante apertura verso le nuove tecnologie, la conoscenza delle quali non comporta, in nessun modo, un distacco dalla tradizione, ma piuttosto integrazione e arricchimento della stessa.
TG: Va bene, ma la maestria adesso dove sta?
MB: La maestria sta nella conoscenza dei mezzi e nella loro finalizzazione Per esempio: ho alcuni amici fotografi che non sono solo fotografi, ma artisti che prima lavoravano con la macchina fotografica in analogico, come Cresci, Giacomelli, oppure Kusterle. Quasi tutti sono passati all'uso di nuovi mezzi digitali senza aver cambiato la caratteristica del loro linguaggio e della loro ricerca.
TG: Cresci vive a Bergamo?
MB: E' genovese, ha vissuto per alcuni anni a Matera dove ha iniziato a fare i suoi primi esperimenti, poi è venuto a Bergamo a dirigere l'Accademia Carrara di Belle Arti. Fa delle cose straordinarie con la macchina fotografica, lavora col digitale e poi stampa anche in grande formato; è molto perseverante nella propria ricerca. Non fa cose lontane dalla mia natura, ma usa degli strumenti diversi. Non voglio dire che questo sia negativo o positivo: io uso altri strumenti. Tutto qui. Scusa, ma la tecnica della pittura ad olio è stata inventata ieri? E l'affresco?
TG: Purtroppo l'affresco è morto, non c'è più nessuno che lo sappia fare come davvero va fatto. Dovevo intervistare l'ultimo maestro in questa tecnica, Bruno Gandola, anche lui ha insegnato a Brera nel periodo in cui insegnavi tu, ma non ho ancora avuto occasione per farlo, per vari motivi. Sarebbe interessante farsi raccontare questa tecnica nel dettaglio, perché queste sono conoscenze che rischiano davvero di scomparire anche dai libri di testo. Vedremo se avrò occasione di proporre l'affresco su queste pagine.
MB: L'affresco è morto perché l'hanno lasciato morire, ma non è vero che è una tecnica obsoleta, perché ogni giorno si può inventare qualcosa. Se fai un errore e da lì scaturisce qualcosa di meraviglioso, il problema è ripetere quell'errore. Le tecniche, se le conosci, le puoi utilizzare ottenendo il meglio, se non le conosci non le puoi utilizzare. La fotoincisione, per esempio, è una tecnica meccanica che ti permette di fare cose meravigliose, ma bisogna dichiarare quello che si fa.
TG: Parli della photogravure?
MB: Sì, mi riferisco alla fotoincisione, che può dare dei risultati raffinati, ma comunque dipende sempre dall'artista che utilizza questa tecnica. Comunque, Io amo di più la manipolazione. E forse devo questo mio atteggiamento anche a Upiglio ed altri miei maestri.
TG: C'è un rinnovato interesse per le tecniche come l'incisione o la serigrafia, non credi? Anche se qualcuno, come dici tu, le definisce obsolete... Che senso ha questa definizione non lo capisco; scrivere è anche questo un modo obsoleto d'esprimersi?
MB: La mia paura è che certe tecniche tornino non per un interesse autentico, ma perché si dà per scontato che un'incisione costa meno di un quadro, causa la riproducibilità che Benjamin spiegò ampiamente nel saggio “L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica”.

Una matrice utilizzata in litografia.


TG: Mah, in parte le incisioni antiche sono ormai introvabili; tutto quello che c'era è stato venduto e adesso c'è chi vende le pagine di libri nemmeno più vecchi che magari non sono altro che stampe digitali di vecchi soggetti...

MB: Io sono un discreto collezionista di incisioni, faccio molti cambi con i colleghi, pertanto ne ho parecchie. Mi rendo conto che ci sono ancora molti giovani che si aprono a questo mondo, però mi sembra una cosa strana date le numerose sollecitazioni nel digitale e nelle nuove tecnologie...

TG: Torniamo alla Biennale del '64. Ma è vero che gli americani hanno portato le loro opere a bordo di una portaerei della Sesta Flotta? E le opere sono state fatte sbarcare di notte come si racconta?

MB: Non lo so. Però so che lavorare nell'allestimento fino a mezz'ora prima dell'inaugurazione è tipico della Biennale.
TG: Si dice anche che il premio non dovesse andare agli americani, ma fosse destinato ad Alberto Biasi del Gruppo N...

MB: Questa è una domanda interessante. Probabilmente è vero. Io ero amico di Gianni Colombo e anche di Biasi, ma a distanza di 53 anni cosa dobbiamo pensare? E' stato bene dare il premio a Rauschenberg o no? Per me, sì. Il fatto che prima della mostra ci siano delle voci che vogliono il premio assegnato a certi nomi piuttosto che ad altri fanno parte dei giochi del mercato.

TG: Aver premiato Rauschenberg che, tra l'altro, sembra abbia esposto soltanto 4 opere non ha penalizzato l’arte italiana?

MB: Alla stessa stregua, io potrei chiederti: chi ti dice che i macchiaioli siano da meno degli impressionisti? Conta molto il peso politico di chi sostiene un certo tipo di arte. La politica socio-culturale della Francia è stata ben più forte di quella italiana.


Alcuni strumenti utilizzati da Mario Benedetti.


TG: Ed a Venezia nel 1964 non è capitata la stessa cosa?

MB: In un certo senso si. Ciò non toglie che l'opera di Rauschenberg fu di grande impatto e nel clima generale della Biennale si distingueva anche per determinate soluzioni tecnico-pittoriche che influenzarono non poco l'arte italiana ed europea.

TG: Sono d'accordo!

MB: Certo, se tu dici quello che sto dicendo io ad un critico d'arte, o a uno studioso, comincerebbero subito a porre dubbi e a contraddirti. Quello è il sapere ufficiale, convenzionale direi. La tua domanda è corretta, ma quelle sono imposizioni date non solo del mercato e dalle convenienze.

TG: Hai insegnato all'Accademia di Belle Arti di Brera?

MB: Inaspettatamente ho vinto un concorso e mi è stata assegnata una cattedra per tecniche dell’incisione alla fine degli anni '80 a Brera. Da allora non hanno più fatto concorsi nazionali. C'erano a disposizione quattro cattedre: Milano, Roma, Venezia, Torino… C’era una parte scritta per lo svolgimento di un tema, poi c'era l'esperienza tecnica diretta, più un progetto da realizzare, una prova di disegno e un esame orale.

TG: I titoli non contavano, una volta?

MB: Questa è una domanda giusta. Contavano anche i titoli, però il punteggio massimo era di 40 punti, i titoli didattici valevano 20 punti. Se non potevi contare sui titoli didattici dovevi prendere il punteggio massimo dei punteggi artistici per poter essere ammesso. Io avevo comunque già l'abilitazione all'insegnamento nei licei artistici, anche se questo non aveva un grande peso, ai fini della docenza in Accademia. Ma vorrei evitare di parlare dell'insegnamento e della burocrazia.



Mario vicino al torchio costruito dall'artista giapponese Tomonori Toyofuku.
Mario vicino al torchio costruito dall'artista giapponese Tomonori Toyofuku.

TG: Torniamo alla Milano degli anni '60 e '70.

MB: In quegli anni non si poteva non essere attenti alla vivacità culturale dell’ambiente milanese e le sue avanguardie artistiche. C’erano tante gallerie, tanti concorsi per gli artisti giovani, insomma c’era la possibilità del confronto. Forse erano il risultato anche del Bum economico e del bisogno di essere a pari passo con movimenti internazionali non solo nelle arti visive ma anche in letteratura, filosofia, cinema, come pure nella scienza. Ricordo che quando andavo a Milano, o vivevo già in quella città ero abbastanza squattrinato e c'era il problema di cosa fare la sera e di dove andare. L'osteria costava troppo, ma anche il bar era caro per noi giovani artisti e allora andavamo da Upiglio. Lui era amante del whiskey, così su un tavolone c'era una bottiglia sempre piena di liquore. Io ero ancora intimidito dal fattore generazionale, ma lì ho avuto modo di conoscere molti intellettuali, tra cui Dino Buzzati, Dario Fo, al quale ho poi realizzato una mostra qui a Bergamo (Dario Fo è presente nei filmati del funerale di Upiglio ndTG), ho conosciuto Emilio Scannavino, anche se lui non veniva lì di sovente, ma per molti, come Guido Ballo ed altri, l'andare nel laboratorio di Upiglio era un appuntamento fisso. Ci si ritrovava da Giorgio a parlare ed a bere un bicchiere insieme, dico questo per spiegarti il clima che c'era a quel tempo a Milano.

TG: Forse c'erano meno artisti, o creativi, ma ci si conosceva meglio e ci si frequentava con piacere, c'era un clima più rilassato?

MB: Sai, il termine artisti... Se tu pensi che Manzoni non era considerato un artista, ma un personaggio stravagante ed accettato da pochi! Artista è un termine un po' abusato, soprattutto oggi. Al Bar Jamaica molti di noi si incontravano non solo per bere, ma anche per discutere e scambiare le idee.

TG: Quindi, conosci anche il fotografo Enrico Cattaneo?

MB: Certo! Lo conosco bene e lo frequento. Molte sono le fotografie che ha scattato nel mio studio e molti sono i miei lavori da lui fotografati! E' un amico di lunga data. Credo che lui abbia il più grosso archivio fotografico in Italia sull'arte contemporanea. Andava a tutte le mostre, da Venezia a Kassel, a Basilea. Passava molto tempo in camera oscura, non sopportava il digitale, ma ora credo che lo utilizzi anche lui.

TG: Tu hai fatto qualcosa con la fotografia?

MB: Sì, mi piace, ho fatto qualcosa, ma senza velleitarismi. Ho mischiato varie tecniche, ho realizzato qualcosa anche con la fotoincisione, ma non mi entusiasma più di tanto, perché a me piace lavorare con le mani e poi io amo l'errore e l'imprevisto. Ci sono delle tecniche che sono prive di imprevisti. Vorrei sottolineare che soprattutto nell'arte della calcografia per raggiungere una certa perizia tecnica serve di più l’ostinazione che il talento; ancora oggi ci sono degli eccellenti tecnici/traduttori, che dal punto di vista creativo sono modesti “artisti”.

TG: Bene, parliamo un po' delle tecniche che utilizzi. Che cos'è il monotipo?

MB: E' una tecnica a stampa in copia unica, per me coinvolgente, che s'è persa nel tempo. I giovani la stanno riprendendo perché è più immediata. La stampa del monotipo è difficile, mentre l'esecuzione è semplice. Sopra una lastra di metallo dipingi a olio o a colori grassi; io sgrasso i colori mettendoli su un cartone, in modo che perdano un po' d'olio, oppure con i colori calcografici, dipingi su questo supporto avendo l'accortezza di non mettere alti spessori di colore, perché la pressione del torchio spanderebbe il colore sulla carta in fase di stampa. E' una tecnica sensibilissima, e se senza volerlo ti capita di toccare la lastra con un dito, ad occhio nudo non vedi l’impronta, perché non c'è inchiostro, ma quando stampi ti accorgi d'aver lasciato una traccia. E' una tecnica raffinatissima, che molti scambiano addirittura per una fotografia. Per un certo periodo degli anni '70 e '80 mi sono dedicato molto a questa tecnica. A Milano avevamo un artista fenomenale che ha realizzato molti monotipi: il Grechetto. Puoi vedere le sue opere alla biblioteca Sormani.


Laboratorio  Mario Benedetti Bergamo
Sulla parete di sinistra sono appoggiate alcuni quadri di grande formato di Mario Benedetti.

TG: Un tuo monotipo cm 40X40 quanto può valere?

MB: Quanto vale o quanto la faccio pagare?

TG: Quanto la fai pagare?

MB: Per quanto mi riguarda costa come un disegno di quelle stesse dimensioni. Vedo che stai guardando questa stampa di grandi dimensioni!

TG: E le stampe di grandi dimensioni quanto vengono valutate?

MB: E’ difficile dire il loro valore. Solo per realizzarle viene a costare sui 600, 700 euro a copia in quanto il lavoro è molto laborioso. Il materiale come la carta, e gli inchiostri sono costosi, e in più per ogni stampa è necessaria la collaborazione di due stampatori. Quella stampa che stai osservando è un'incisione su ferro che essendo materiale molto poroso crea molte difficoltà in fase di stampa. Utilizzando un particolare metodo di pulitura riesco ottenere risultati soddisfacenti anche se con molta fatica. Quella invece è un'opera a cui sono molto legato, perché il ferro viene poco usato per fare i cliché per calcografia, infatti se lo guardi con un lentino, ti accorgerai che è un materiale poroso. Anche se lo pulisci bene resta sempre una base, quasi come se fosse una leggera acquatinta. Alla lunga io sono riuscito a pulire il fondo per ottenere quasi un bianco. Il mio trucchetto è usare la poupée nella pulitura. Per farti capire cos'è la poupée prendiamo Mirò, che utilizzava molto questa tecnica o un contemporaneo: Hsihao Chin, lui realizza tutte le sue incisioni con la poupée. Stendendo il nero, il rosso ed il giallo sulla lastra di metallo e poi pulendo il tutto tre volte con la tarlatana si mescolano i colori avendo l'impressione che giallo nero e rosso si fondano, questa è la tecnica poupée. Io invece ho due lastre di ferro che inchiostro interamente, le avvicino in stampa e ricavo il bianco con uno straccio sporco di trementina e mescolando il tutto con la tarlatana. La trementina leva l'inchiostro dal supporto, in questo caso poroso, ed ottengo questo risultato.

Una stampa su carta sensibilizzata effettuata per Kunderle.


TG: Molto bello.

MB: Garner Tullis era un altro incisore americano di New York che realizzava monotipi di grandi dimensioni.

TG: Mi puoi, per favore, spiegare l'importanza del grande formato?

MB: Con il piccolo formato ho un rapporto direi più intimistico, mentre nel grande ho anche un coinvolgimento di tipo fisico. In un grande formato, soprattutto nelle opere su tela, nella scultura, ma anche nell'incisione e nel disegno, l'atteggiamento esecutivo/emotivo cambia perché il gesto, il segno, il tono e la materia sono riportati alla dimensione dell'opera. Comunque per me il grande e il piccolo hanno la stessa valenza. Certo, lavorare su grande scala cambia il mio rapporto con l'opera, perché il coinvolgimento spazia: lo sguardo passa dal “tutto” e spesso si sofferma sul particolare. Il segno, la disposizione della superficie/spazio e la dimensione dell'opera, per me sono variabili non solo della fase tecnico esecutiva, ma credo lo siano anche nella lettura del fruitore. (Vedi nota 1 con il testo di Mario Benedetti che parla dei formati)

TG: Perdonami se ti faccio una domanda un po' provocatoria, ma certi formati di dimensioni veramente eccezionali, non sono un po' un atto di esibizionismo? O c'è un'esigenza pratica per fare una cosa del genere? Mi viene da pensare a Miroslav Tichy le cui opere pur essendo di formato piuttosto contenuto riescono ad esprimere una grande forza.

MB: Dopo che io ho lavorato su un formato grande, sento l'esigenza di tornare su dimensioni più normali, come il 30X30 o il 40X40, ma ci sono dei soggetti che io concepisco in grande, proprio per avere più impatto visivo ed un diverso coinvolgimento fisico. Se tu immagini lo stesso soggetto di dimensioni medie e di dimensioni grandi, ti accorgerai che cambia anche l’impatto. Un lavoro di dimensioni medio-piccole, ti richiede di avvicinarti all'opera per cercare di analizzarlo meglio; un quadro di dimensioni grandi lo vivi in un altro modo. Indubbiamente, la tua domanda è corretta. Le grandi dimensioni sono il frutto di una certa voglia di spettacolarità. Quando realizzi le opere così grandi lo fai sapendo che non riuscirai a venderle, ma se dovessi pensare di fare qualcosa nell'ottica di vendere cambierei mestiere. Nel campo della tecnica si fanno molte cose, alcuni hanno utilizzato il cliché verre, un procedimento nato nello stesso periodo in cui è nata la fotografia perché gli artisti realizzavano molte litografie. Corot e Débeugny hanno avuto la genialità di trovare un'alternativa alla litografia. Si può anche prendere l'emulsione liquida, stenderla al buio con il pennello su una carta a base cotone, lasciarla asciugare, sempre al buio, ed alla mattina seguente mettere un'immagine nell'ingranditore per stamparla. Molti credono che le immagini di Rauschemberg siano dei collage, ma in realtà sono dei cliché verre, una tecnica meravigliosa, anch'essa persa nel tempo che viene spesso associata a qualcos'altro.

TG: L'arte informale ha la necessità di disporre di grandi spazi.

MB: Certo. Pensa ad un Antoni Tàpies piccolo o a un Tàpies enorme. Oppure ad un Rothko... Non riesci a concepire le loro opere in piccole dimensioni!


Un progetto per un monumento mai realizzato.

TG: Anche l'opera di Emilio Vedova...

MB: Si. Tempo fa ero a Udine nella Stamperia Albicocco, uno stampatore che eseguiva le incisioni di Vedova. Mi ha fatto vedere le lastre di Vedova con quel suo gesto potente. Le incideva con un acido quasi puro che le bucava. Era un atteggiamento, ma come giustamente dicevi tu, quando le dimensioni sono ridotte, l'impatto dell'opera è totalmente diverso.

TG: Un'opera di grandi dimensioni è anche una dimostrazione di grande abilità tecnica?

MB: Senza dubbio.

TG: La tua incisione "Incombenza" a che cosa si ispira?

MB: Riferendomi all'incisione "Incombenza", nel 1993 ero in Messico dove s'è verificata una delle più spettacolari eclissi di sole. Quando sono rientrato in Italia ho realizzato quest'opera.

TG: Mario che cosa fai con le matrici, dopo che hai stampato? Le tieni?

MB: Sono più geloso delle matrici che delle stampe.

TG: Ti credo... Perché non le distruggi?

MB: Per me la lastra è la mia opera. Quando faccio una mostra espongo sempre anche una matrice. Alla Pinacoteca di Cremona ne ho esposta una inchiostrata vicino alla opera tratta da quella matrice, per far capire al visitatore da che cosa deriva una stampa.

TG: E' difficile stampare una copia di 2 metri per 1, come in questo caso?

MB: Ci metto anche due ore per stampare una copia, e il problema è che su tre fogli te ne riesce bene uno. Ad ogni modo, stampo anche dei soggetti più piccoli come il 10X10.

TG: "I colori del nero"... Bello il titolo di questo manifesto, a cosa si riferisce?

MB: Ad un film documentario che è stato girato per illustrare la stampa di una mia matrice. Ha vinto un premio al Festival di Locarno.

TG: Vedo che ti piace anche scolpire. Come procedi per la realizzazione di queste opere?

MB: Con la creta faccio la base e poi gli verso sopra il cemento, con una rete in mezzo, altrimenti cederebbe. Il processo è simile alla matrice di una incisione in quanto da un incavo in negativo ottengo il positivo. Pratico anche le fusioni in bronzo, ma sono un'altra cosa.

TG: Mario che cos'è il torchio calcografico?

MB: Il torchio calcografico è una macchina che serve per poter eseguire delle stampe da una matrice. Si compone di due rulli sovrapposti che schiacciano la carta sulla matrice inchiostrata e propriamente pulita.

TG: Perché hai così tanti torchi?

MB: Perché una volta lavoravo molto. Adesso, forse farò una donazione a un nuovo laboratorio, ancora in fase progettuale a Novara di Sicilia, un paese bellissimo dove si vorrebbe recuperare, creando un polo artistico, negli spazi in parte abbandonati di un edificio storico.

TG: Praticavi il tuo lavoro anche da altre parti?

MB: In provincia di Novara, a Casalbeltrame avevo un altro studio, fino a qualche anno fa, dove un grande collezionista di scultura, ha fondato il Centro internazionale d’arte della scultura, dove mi ha invitato ad allestire un laboratorio in una chiesa sconsacrata, e dove ho trasferito alcuni torchi calcografici per poter stampare anche incisioni di grandi dimensioni.

TG: E quello è un torchio speciale?

MB: Quello era il torchio di Tomonori Toyofuku, se l'era inventato lui e l'aveva fatto al contrario, vale a dire con la trazione sul rullo superiore. E' una pressa che stampa le opere piccole divinamente. Come vedi, quest’altro è grande.

TG: Il tuo torchio che formato è in grado di stampare?

MB: In lunghezza quanto vuoi, basta cambiare il supporto, solo che poi non si trova la carta... La larghezza dei rulli è 130 centimetri. La carta da stampa Hahnemühle che uso io ha la massima larghezza di cm 124. E viene venduta in rulli da 20 metri di lunghezza. La carta è diventata costosissima. In Italia, la Fabriano, purtroppo, ormai non la produce più. C'era un'ottima cartiera a Catania, chiamata Sicars-Graphia che per i piccoli formati era meravigliosa, in Inghilterra c'è la Somerset white satin che viene venduta in rulli da 100 metri e ci sono difficoltà per trasportarla.

TG: Per incidere usi l'acido nitrico?

MB: Per lo zinco sì, per il rame il percloruro di ferro.

TG: Si può usare anche l'acciaio per le matrici?

MB: Alcuni acciai sì, altri fai molta fatica ad intaccarli.

TG: Tipo?

MB: Non puoi usare l'inox.

TG: Chiaro. Puoi lavorare quelli più morbidi... e con cosa li incidi?

MB: Con l'acido nitrico, però ci vuole molto tempo, non sai mai le dosi...

TG: Grazie Mario parlare con te è stato molto utile e piacevole, ci rivedremo presto.

Mario enedetti
Una stampa in serie molto limitata.

Nota 1

LA DIMENSIONE DELL'OPERA COME UNA VARIABILE
Nonostante le differenze, in apparenza radicali, qui proposte credo che il mio modo di elaborare e caratterizzare un'immagine per mezzo della pittura o dell'incisione deriva dalla medesima “matrice”. Nell'incisione, e soprattutto nella calcografia, gli elementi che sollecitano i sensi come la rugosità tattile della carta, il “colore” del bianco e del nero, il segno provocato dall'incavo e altro permettono esperienze che sembrano non andare oltre i convenzionali tracciati estetici che spesso guidano chi guarda. Ho avuto sempre la sensazione che la potenzialità tecnico-espressiva dell'incisione, l'arte di creare un'immagine con la stampda un solco inciso in una lastra di metallo, non sia mai stata pienamente esaurita ed è tuttora aperta ad imprevedibili esperienze linguistiche. Quando scelgo la dimensione di una superficie che mi servirà da base, subentra l'insofferenza alla regola fissa e all'idea di una legge aprioristica che pone chi fa e chi guarda in condizioni di dipendenza della consuetudine. É chiaro che i confini delle indagini estetico-interpretative sono talmente dilatabili da ipotizzare che la relatività della visione sia anche la realtà momentanea della percezione. Il segno, la disposizione della superficie spazio e la dimensione dell'opera, per me, sono variabili non solo della fase tecnico-esecutiva, ma anche della lettura e del coinvolgimento del fruitore. Quindi, quando di fronte a un'opera siamo assaliti dalla dimensione, dal peso ecc. ci accorgiamo che nessuna di queste proprietà sono determinanti ai fini del valore artistico, ma sono elementper raggiungere le finalità espressive che l'artista si è proposto. L'operare su grande scalcambia il rapporto gestuale dell'autore e di conseguenza anche la relazione del fruitore con l'opera. A volte In un piccolo appunto in un disegno d'album intravvedo spiragli o nuove possibilità per affrontare una dimensione grande e con qualsivoglia tecnica. In un grande formatosoprattutto nell'incisione, tendo a differenziare l'atteggiamento esecutivo-emotivo esaltando il gesto, il segno, la materia e il tono, ma cosciente che le stesse valenze sono presenti sia nel piccolo che nel grande formato la prima idea si concretizzano nel momento in cui mi rapporto alla dimensione della superficie; può succedere però che nel fare io trovi altri suggerimenti e possibilità espressive completamentdiverse dal progetto iniziale. In altre parole, una mia nuova logica che mi porti a risultati imprevedibili. Alla fine mi sorprendo, sia nel grande che nel piccolo, del risultato al di là degli incidenti di percorse, del caso, e perché no, anche degli “errori”, cosciente che lverità”, anche se esistesse, non vorrei individuarla. 
Mario Benedetti

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