giovedì 26 ottobre 2017

Programma del Basement Art Party - Jesi 17/18/19 Novembre 2017

Anche in questa edizione autunnale del Basement Party, "Frammenti di Cultura" sarà presente a Jesi per vedere ciò che accade in uno degli incontri più effervescenti dell'anno, sulla scena artistica Underground marchigiana. TG


Sara supersexy
Il Tempo ti consuma in fretta: Vivi intensamente e non perderti il Basement Party!


Ricordatevi queste date: 17/18/19 Novembre 2017
Ecco cosa succederà:
Il Basement Art Party non è soltanto una rassegna artistica che mette in Cantina (al Cotton Club di Corso Matteotti, 33) ed in piazza (al quartiere San Giuseppe, al Centro Sociale TNT ed in alcuni luoghi di ritrovo della città) i migliori grafici, illustratori, artisti, tatuatori, fumettisti, musicisti e sperimentatori in mille altre discipline artistiche/sociali e culturali; è un evento unico nel suo genere con la missione di dare visibilità a tutte quelle realtà artistiche assimilabili al mondo dello skateboarding, del tatuaggio, del fumetto, della grafica, della poster-art, della illustrazione, della fotografia, della kustum kulture ed in generale a tutte le arti visive affini al Rock'n'Roll e alla musica.
Elemento fondamentale del Basement Party è la promozione della Street Art, della Controcultura e dell'esplorazione di nuove forme di comunicazione e aggregazione sociale.
Gli artisti che aderiscono al Basement Party desiderano stimolare il dibattito attorno ad argomenti culturali/sociali ed estetici 
attraverso le loro opere e tematiche attuali, per portare il pubblico ad una maggiore consapevolezza della realtà in cui viviamo e della continua evoluzione della nostra società.
Il recupero degli spazi sociali è un altro punto cardine della "mission" del Basement Party che lotta contro il grigiore della cementificazione urbana, e l'omologazione degli individui.
Per un miglioramento della qualità di vita dei cittadini, il Basement Party si vuole impegnare per dare il proprio contributo ad una nuova prospettiva di futuro in cui arte, cultura, sport e benessere psico-fisico siano il motore di una nuova prosperità economica e sociale nel nostro Paese.

Programma

Venerdì 17, Sabato 18 e Domenica 19, dal pomeriggio a tarda notte, mostre itineranti nel centro storico di Jesi, dalle ore 18,00 alle ore 24,00 circa, presso i seguenti locali:

▶ Comida
(ex Spaccavia) Viale della Vittoria 61,
Esposizione di David Panico Campana, Chiaravalle.

▶ Jack Rabbit - brewpub indipendente - Jesi
via Federico Conti 3/B,
Uomini Nudi che Corrono presentano Quel Piccolissimo Giganteschio, mostra di strip da tutta italia dell'omonimo volume.

▶ Man Cave Cafè
via Torrione 5, Esposizione di: Alex Polita, Kustom Kulture da Jesi; Motos Carronas, Kustom Kulture da Jesi; Lorenzo Fugaroli Fmw aka Fugar Metal Works, Kustom Kulture da Ancona; La Santissima Trinità, collettivo romano di designer, illustratori e poster-artist composto da: Paulette Du, poster art; Murder Farts, Kustom Kulture artist e Simone Lucciola, illustratore e graphic designer


▶ La Picca
Piazza Gaspare Spontini 2/B, Esposizione delle tavole del Black Horse tattoo di Roma; opere originali di Francesco Giamblanco, Fabrizio Mele e Deborah Necci, in collaborazione con i local heroes Homeward Tattoo di Jesi.

▶ Poldo Burger Bar
via del Fortino 3, Esposizione di Giulia Civitico aka Microamica, papercutting artist di Maniago (Pn).

▶ Rambaldus Cocktail Bar
Piazza Federico II, Esposizione di Marco Cinquantalire Macellari, illustratore e designer di Macerata.

▶ RossoIntenso Enoteca Degusteria
via Mura Occidentali 9, Esposizione di Diego Bonci, illustratore di Jesi.

▶ Giammarco Hair Salon & Shop
Viale della Vittoria 6, Esposizione di Charlie Brillantina Brown Moretti, grafico illustratore e poster artist di Porto S. Elpidio.

▶ Pinacoteca Civica, Palazzo Pianetti
via XV Settembre 10, Esposizione di Nicola Alessandrini e Lisa Gelli, illustratori di fama nazionale: sono tra i Deus Ex Machina del festival Ratatà di Macerata.

Venerdì 17 Novembre, dalle ore 23:00

Musica al Man Cave Cafè
Live music con: Alberto Forstner One Man Band da Rimini
Plutonium Baby garage-punk- rock’n’roll, da Roma.
A seguire, djset Rock’n’Roll-Garage-Punk a cura di Murder Farts

Mostre: Sabato 18 Novembre

dalle ore 16:00 alle 24:00
Apertura della Cantina/Galleria: Cotton Club in Corso Matteotti 33 a Jesi. 

Presentazione del Murales di Uomini nudi che corrono.
Mostra-mercato con esposizione di opere artistiche di: 
Murder Farts, creatore di diorama e Kustom Kulture designer, da Roma.
★ Ranni Davide aka Wolfenstein, designer Kustom Kulture e scultore con pezzi di ricambio di parti meccaniche, da Roma.
★ Simone Lucciola, illustratore e grafico della scena Punk Hardcore Romana, da Roma.
★ Paulette Du, poster artist e chitarrista di Motorama e Plutonium Baby, da Roma
Giampo Coppa, poster artist hero, da Torino
★ Tony Graffio, documentarista, da Milano
★ Barbara Fagiolo, illustratrice e tatuatrice, da Roma
Daniel Tummolillo, poster art e serigrafia, docente dell'Accademia di Belle Arti di Brera, da Melegnano (Mi)
★ Riccardo Chitarrari, illustratore, da Macerata
★ Gabriele Zagaglia, illustratore da Osimo (An)
★ Giacomo Farina, illustratore di Senigallia (An)
★ Giorgio Bartocci, writer e illustratore, di Jesi (An)
★ Big Air Lab, prime mover della scena skate marchigiana, esposizione di tavole da skateboarding.
★ Raffaele Primitivo, grafico e Dj, da Ancona
★ Alberto Forstner, artigiano/artista, da Rimini
★ Vanessa Cardinali
fumettista, da Jesi (An)
★ Francesco Biagini, fumettista da Perugia
★ Alex Massacci, fumettista da Jesi (An)
Marco Mantesso (Osteria Mekkanika), artigiano/artista/designer, da Bassano del Grappa (Vi)
★ 
Werther Zambianchi, fotografo e stampatore sperimentale, da Ancona 

Musica allo Jack Rabbit - brewpub indipendente - Jesi via Federico Conti 3/B, 
dalle ore 18,00 alle 24,00 circa.
Direttamente dal main stage del Summer Jamboree di Senigallia 2017, concerto R'n'R/Blues di Paolo Fioretti e Eolo Taffi.


☠ ♕ BASEMENT BIG PARTY ♕ ☠

Musica allo Spazio Comune Tnt Jesi, Sabato 18/11, dalle ore 24 circa, in via Gallodoro 68 a Jesi.
Banana Spliff, hip hop band, da Ancona con il loro nuovo album.
Colle der Fomento official, hip hop legends, da Roma.
After show curato da:
Dee Jay Oskee (Hip hop-Funky-Soul)
Dj Macca Andrea Maccarone (Rock- Beat-Northern soul)
Dj BRUNO Bruno Tarabelli (Rock-Rock'n'roll-Garage and moore)
Special Guest @ TNT Cocktail Bar
Our Barman Local Hero: Riccardo Staffolani

Fotografia
Il Gruppo HAR di Cuneo espone durante l'apertura dello Spazio TNT ed i concerti immagini che rappresentano “istanti di argomenti giovani”, scatti realizzati in maniera esemplare, che contribuiscono a infoltire quell'HARchivio documentario del nostro tempo. Fotografie di: Ugo Canavese, Monica Barbero, Loris Salussolia, Gianni Chiaramello, Loreta Baglio.

Domenica 19 novembre
alle ore 16:00 al Quartiere San Giuseppe, Jesi
Presentazione del "mural" realizzato da  Nicola Alessandrini e Lisa Gelli, artisti scelti dalla rassegna Chromaesis per la riqualificazione del quartiere San Giuseppe.

Mostra-mercato al Cotton Club, Corso Matteotti, 33 - Jesi dalle ore 17:00 alle 21:00.
Alle ore 18:00: presentazione ufficiale della Birra Wallop, dal birrificio "indipendente" di Monsano
I mastri birrai presenteranno e vi guideranno nella degustazione delle loro birre, che hanno già ottenuto vari riconoscimenti a livello nazionale.


Basement Party

Buon divertimento a tutti!




martedì 17 ottobre 2017

Chiara Dal Maso e le sue distrazioni terapeutiche (Everyday Distraction)

Ho fatto un giro a Pachewgo, non avevo tantissimo tempo, ma ho conosciuto una simpatica disegnatrice.
Disegnare è terapeutico, così come tenere un diario di quello che si fa ogni giorno: per questo anche io ho il mio blog... TG

Sinclair vintage gas-pump, dinosaurs, ufos, pink sky and hitch-hickers. Chiara Dal Maso.
Sinclair vintage gas-pump, dinosaurs, ufos, pink sky and hitch-hickers. Chiara Dal Maso.

Tony Graffio: Ciao Chiara, volevo sapere il tuo nome completo e da dove vieni.

Chiara Dal Maso: Sono Chiara Dal Maso e vengo da un paese vicino a Vicenza, si chiama Sarcedo.

TG: Bella zona. E che cosa fai lì? Ti occupi di illustrazione o di grafica?

CDM: Lavoro come graphic designer, però ho fatto una scuola d'arte, così ho mantenuto la passione per un certo modo d'esprimermi, al di là del mio lavoro, e cerco di portarla avanti.

TG: Di che cosa si occupa esattamente una graphic designer?

CDM: Mi occupo di identità del marchio e dell'impaginazione degli eventi di comunicazione. Lavoro principalmente per uno studio, ma anche come free-lance. Mi piace lavorare per i festival musicali e cose di questo tipo.

TG: Fai anche della Rock poster art, per caso?

CDM: No, anche perché non so bene di che cosa si tratti, anche se parlando di questa cosa mi viene in mente Malleus...

TG: Bravissima. Che cosa stai facendo con questo progetto artistico che hai denominato "Everyday Distraction"?

CDM: Si tratta di un progetto che è nato per motivarmi a disegnare di più. In un primo tempo, avevo pensato di realizzare un disegno alla settimana; poi una volta che mi sono accorta che la cosa andava bene ho proseguito in quel modo per un mese ed infine ho deciso di fare un disegno al giorno che avesse attinenza con quello che mi accadeva durante la giornata. Penso che continuerò con questo proposito fino alla fine dell'anno, o anche oltre.

TG: I tuoi disegni mi sembrano abbastanza ironici; generalmente che tematiche sviluppi?

CDM: Mi baso molto sulla mia vita quotidiana. Ogni giorno mi confronto con la società, con il mio lavoro, con persone e fatti di cronaca. Trasporto tutto questo nei miei disegni che diventano un diario personale nel quale mi ritrovo e riesco così a prendermi maggiormente cura di me stessa. Per me, il disegno è un atto molto terapeutico, al punto che a volte, anche da situazioni un po' pesanti riescono a nascere delle trasposizioni grafiche molto interessanti che fanno diventare certi momenti più leggeri.

Bagno con amica in una pozza d'acqua del deserto e auto rosa. Chiara Dal Maso.

TG: Ho capito, ti avvali dell'arteterapia per stare un po' meglio e rendere certe situazioni pesanti più accettabili.

CDM: Esattamente. Come vedi, nel disegno dove ballo con lo scheletro ero in un momento un po' delicato ed in più c'è anche la presenza di un cane nero...

TG: Molto simbolica.

CDM: Pensavo anche ai Dead can dance, oppure ai testi di canzoni... O a gruppi musicali che mi ispirano. In un altro disegno faccio festa con i miei mostri.

TG: I mostri sono le tue paure?

CDM: Sì... E poi c'è anche la presenza di chi controlla i social network con quell'ossessività tipica che non ti permette di fare altro se non di isolarti.

TG: Capisco...

CDM: Sì, io sento molto questa cosa perché faccio parte di quella generazione di mezzo che da adolescente non aveva a disposizione questi mezzi di comunicazione.

TG: Non sei super-giovane come sembri?

CDM: Sono nata nel 1989.

TG: L'anno della caduta del Muro di Berlino e dell'inizio delle rivoluzioni dei paesi dell'Est europeo. E come ti comporti con i tuoi disegni? Li realizzi a pennarello e poi li trasponi su cartolina?

CDM: Per un breve periodo ho venduto alcuni originali in formato A5, altri in A6, dipende da quanto tempo ho a disposizione per realizzarli; ma adesso preferisco conservarli.

TG: Disegni al mattino o alla sera?

CDM: Solitamente di sera, così posso prendere in considerazione tutto quello che è successo durante la giornata e scegliere di che cosa parlare.

TG: Si tratta di un metodo che hai messo a punto nel tempo?

CDM: Sì e comunque cerco di disegnare la mia miniatura prima della mezzanotte: a volte ci sono dei ritardi a causa di problemi della connessione a internet o altri imprevisti...

TG: Inserisci i disegni su un sito?

CDM: Sono su Instagram. La parte Social mi serve perché essere seguita da un pubblico mi dà l'idea che qualcuno aspetti i miei lavori, anche se poi magari non è proprio così. In più, è un modo per tener traccia in modo ordinato di quello che mi capita ogni giorno.

TG: Allora questa sera posso sperare che disegnerai un'intervista con Tony Graffio?

CDM: No, ho già fatto il disegno di un altro soggetto...

TG: Accidenti, mi tocca ripassare domani. Ne farai uno in cui inserirmi?

CDM: Va bene, sì! 

TG: Fantastico! Ci conto. Ho sempre desiderato diventare un personaggio dei disegni, dei fumetti o dei cartoni animati. E con le cartoline cosa fai? Le regali? Le vendi?

CDM: Sì, adesso le sto vendendo qui a Pachewgo.

TG: Quante ne stampi? Dipende dai giorni? O ti mantieni su un numero fisso?

CDM: In realtà, ho preso questa iniziativa solo in occasione di questa mostra-mercato.

TG: Quindi, di solito tutto resta solo su Instagram?

CDM: Li scansiono sempre, in modo da conservare, in caso di vendita, una copia ad alta definizione. Per Pachewgo ho fatto una selezione delle immagini più belle e le ho portate qui a Milano.

TG: Quando farai una mostra?

CDM: Ho preso dei contatti e domani dovrei parlare con una ragazza che è nel circuito Off di BilBolBul, il festival del fumetto che si svolgerà dal 24 al 26 novembre a Bologna. Vedremo...

TG: In bocca al lupo! E nel caso fammi sapere come andrà.

CDM: Crepi! D'accordo. Oppure potrei fare qualcosa a Milano a fine anno, una volta terminato il progetto: perché a fine novembre "Everyday Distraction" non sarà ancora terminato.

TG: Pensi di ricominciare poi l'anno prossimo?

CDM: Non lo so, vedrò. Potrei trovare un'altra modalità, ma anche proseguire come faccio adesso. Ci penserò, questa è un'attività che mi sottrae molto tempo e tante energie. Eppure è un progetto che è riuscito a darmi tantissimo.

TG: Al giorno quanto tempo dedichi a questa cosa?

CDM: Da questo progetto ho imparato a buttarmi nelle cose che mi interessano e a disegnare molto velocemente; mentre prima per me era diverso e pensavo per ore a cosa fare. Adesso se ho solo un'ora o mezz'ora di tempo, mi butto a capofitto e cerco di fare del mio meglio e seguire il mio istinto.

TG: L'opera originale è quasi dello stesso formato delle cartoline che stampi?

CDM: Sì, sì.

Rapite dal gusto spaziale delle piadine romagnole. Chiara Dal Maso.

TG: Ti vorrei comprare il disegno del distributore di benzina con i dinosauri verdi; gli ufo, il cielo rosa e due tizi che fanno l'autostop. Me lo descriveresti un pochino, prima?

CDM: Purtroppo di quello ho solo l'originale, non ne ho tirato nessuna copia...

TG: Ok, allora compro l'originale incorniciato...

CDM: Va bene, vedremo... Parliamone...

Ridiamo

CDM: Magari, forse... Dipende... se te lo puoi permettere...

TG: Mi sembra un no... Comunque non importa, nel caso puoi spedirmi una cartolina, quando sarà pronta. Adesso però, spiegami almeno che cosa ti è successo quel giorno. Ti è capitato di avvistare qualcosa di interessante; sei stata rapita e portata nello spazio interstellare per un giro turistico?

CDM: No, niente di tutto questo. Mi ero imbattuta in una serie di fotografie di distributori di benzina vintage con il marchio di quel dinosauro verde. Mi hanno molto divertito e poi mi sono immaginata quell'America anni '60...

TG: Un po' Road 66...

CDM: Esatto. Da lì poi ho pensato ad una coppia che faceva l'autostop per andare a Woodstock e siccome magari potevano essere dei fricchettoni che vedevano cose strane ho inserito anche gli ufo. Ci sono giornate lavorative in cui non mi capita nulla, così dopo 8 ore passate in studio devo solo tornare a casa, fare la spesa e prepararmi da mangiare, ma com'è logico ho bisogno di qualcosa di più. Così se non trovo niente di particolare da raccontare mi rifugio in un mio mondo ideale e da lì parto per mete fantastiche.

TG: Molto interessante, ti ringrazio per avermi raccontato un pochino come funziona il tuo mondo. Adesso possiamo iniziare la trattativa?

Chiara Dal Maso, 28 anni, Graphic Designer.
Chiara Dal Maso, 28 anni, Graphic Designer.

Tutti i diritti sono riservati


venerdì 13 ottobre 2017

Siamo davvero umani? (Blade Runner Vs 2049)

"L'uomo razionale si erge in un universo irrazionale governato da menti irrazionali." 
Philip K Dick

Power of Woman, un graffito del 2018 che ha partecipato allo Zu Art Day e si ispira chiaramente al Blade Runner del 1982, l'unico e originale Blade Runner.

"Più Umano dell'umano è il nostro slogan." Eldon Tyrell

Questa domanda io me la faccio spesso e altrettanto spesso non riesco a trovare una risposta, perché se penso alle debolezze più nascoste insite nel mio essere; alla forza delle pulsioni che talvolta mi travolgono; all'intensità di certi sentimenti e alla vertigine provocata dalle emozioni più sconvolgenti, so che tutto questo fa parte dei limiti della mia "Umanità". Ma se scavo all'origine della mia storia che mi dovrebbe accomunare a tanti altri primati che qualcuno si ostina a vedere discendere dagli alberi delle foreste africane, più di qualche dubbio mi si stampa nella mente.
Il film Blade Runner ha già affrontato molte delle questioni fondamentali per gli esseri umani 35 anni fa, prendendo ispirazione dal romanzo di uno scrittore visionario schizofrenico dalla carriera molto discontinua. 
Chi siamo veramente? Da dove veniamo? Esistono altri universi? La nostra esperienza esistenziale è reale? Che cosa sono i ricordi? Abbiamo un'anima? Perché invecchiamo? Perché dobbiamo morire? Che cosa resterà di noi? E soprattutto: dove andremo dopo? E' questo l'Extra Mondo di cui si parla nel film?
Adesso, il sequel di quel capolavoro vorrebbe rielaborare il tutto con la consapevolezza che dover nuovamente stupire il pubblico, per rappresentare un nuovo  punto di arrivo poetico-filosofico, rivelare verità nascoste, oltre che diventare il modello iconografico per i prossimi decenni ed essere adeguato a quanto è già stato detto e mostrato non è un'impresa di poco conto.
Gli americani hanno un loro modo pratico di vedere le cose, forse anche un po' semplicistico; pensano evidentemente che per ricreare un'opera d'arte (ritengo che nessuno abbia dubbi sulla assoluta qualità del film di Ridley Scott) basti spendere molti soldi (per 2049 si parla di circa 180 milioni di dollari per la produzione e cifre quasi di altrettanta importanza per la pubblicità), ma in realtà non si tratta di questo, sarebbe troppo banale e anche un po' volgare. Abbiamo visto molte altre produzioni titaniche che poi si sono rivelate dei flop al botteghino (penso a Dune, di David Lynch), nonostante che per realizzarle siano stati impegnati capitali giganteschi. Ora, che siamo in prossimità di quel fatidico 2019, ci rendiamo conto che le macchine volanti non sono ancora di uso corrente e l'incubo dell'eterna notte piovosa è ancora da venire; anche perché stiamo vivendo l'esperienza del completo scioglimento dei ghiacciai e l'acqua scarseggia sempre più. La pioggia proprio non si vede e perfino quello che eravamo in grado di immaginare negli anni '80 sembra meglio delle nostre fantasie attuali. Eppure, io sono convinto che faremmo meglio a stare molto attenti a quello che immaginiamo perché nella realtà dei pluri-universi ciò che si concepisce, anche solo mentalmente, rischia di realizzarsi su qualche altro livello di realtà.   
Come sappiamo bene, per creare un'opera d'arte degna di questo nome non servono i mezzi, ma le idee e soprattutto queste idee bisogna saperle esprimere in modo poetico, per poter suscitare emozioni nei nostri interlocutori.
Il cinema americano è un'industria molto potente. Sì, certo, oggi anche l'arte si serve dell'industria, ma i risultati che pretende di darci questo connubio non mi sembrano dei migliori. Il problema dell'arte, per l'industria ed il mercato, stanno proprio nel fatto che produrre pezzi unici in quantità limitata non è un grande business: non a caso la Pop-Art è nata in America...
Il fatto che ultimamente si cerchi di trasformare un prodotto seriale su grande scala, e spesso perfino di dimensioni smisurate, in un bene di consumo generalizzato commercialmente redditizio è una questione un po' contraddittoria: ai nostri giorni si vuol far passare l'assioma che arte è business, ma per fortuna il business non è mai arte.
Se pensiamo ai film sperimentali o ai film d'avanguardia sappiamo che queste sono creazioni di pochi individui che scelgono d'esprimersi in un linguaggio visivo, spesso stravolto, che prevede anche l'utilizzo di suoni, musiche e sempre più effetti speciali. Possono essere bobine di pellicola o file elettronici relativamente di scarsa diffusione perché l'idea del singolo può anche avere un impatto potente per la massa, ma non ha i mezzi economici o la forza ideale per raggiungere l'uomo e la donna media che, sempre per problemi economici o d'altro tipo, possono scegliere di non voler affrontare discorsi sui massimi sistemi; pensieri troppo intimistici o troppo intellettuali.
Blade Runner, quello originale, ha avuto il pregio di saper presentare dilemmi esistenziali comuni a tutti gli esseri umani, in modo molto delicato, quasi subliminale, e di aver trattato questi argomenti in forma abbastanza metaforica mettendo ognuno di noi di fronte a se stesso ed a nuove questioni etiche che poi forse così nuove non sono.
Il fatto che gli esseri umani siano le sole creature del mondo animale presenti sulla Terra capaci di pensare e produrre artefatti (manufatti e prodotti industriali) mi ha sempre fatto sospettare che, molto probabilmente, la specie umana non è autoctona di questo pianeta, ma debba forzatamente arrivare da altrove, oppure abbia subito uno sviluppo indotto in modo artificiale, se non una vera origine "divina". Intesa proprio come manipolazione genetica e/o programmazione cerebrale.
Ieri pomeriggio, ho speso 6 euro per vedere un film che sicuramente vale la cifra che ho pagato, perlomeno per l'accuratezza delle riprese, la grande sapienza delle maestranze coinvolte e dei grandi professionisti che hanno preso parte a questo prodotto industriale, ma ho anche assistito a molte incongruenze della sceneggiatura e a degli eccessi di stile e di forma che non mi sono per niente piaciuti, in un film che non mi ha minimamente emozionato; se non nella scena in cui un giovane K si nascondeva vicino ad una fornace da un gruppo di ragazzini che voleva portargli via la statuina di un cavallino di vero legno.
Conosco Blade Runner abbastanza bene perché è un film che ho molto amato. In passato l'ho analizzato nel profondo della sua sceneggiatura, del suo stile, delle sue avveniristiche innovazioni, del suo design, del suo montaggio, delle sue riprese e dei sui contenuti; oltre che nelle sue numerose versioni. Proprio per questo, mi sento di dire che l'errore più grande commesso dai suoi moderni realizzatori e produttori sia quello d'aver utilizzato le parole "Blade Runner" per descriverlo e definirlo nel suo titolo.
Il pubblico non è più un'entità amorfa, acefala e passiva capace di subire pacificamente ogni violenza che si compie ai suoi danni. Gli spettatori, e chi ancora fruisce del cinema nelle sale pubbliche, sa benissimo che voler dare ad un racconto compiuto un seguito forzato è un'operazione commerciale inaccettabile che rischia perfino di far perdere parte del carisma originario anche al vero soggetto del nostro innamoramento. Chi ha ideato il marketing del film di Denis Villeneuve ha in parte rovinato anche il ricordo di un capolavoro (lo ripeto perché bisogna distinguere bene tra opere molto diverse tra loro che portano lo stesso nome solo per confondere i possibili fruitori di un prodotto commerciale anziché di un prodotto culturale); personalmente, io avrei preso ispirazione dal primo film e mostrato solo alla fine che ci poteva essere un collegamento tra le due storie, senza mai citare apertamente il film del 1982.
2049 è stata un'operazione speculativa troppo azzardata e troppo ambiziosa che arriverei perfino a definire arrogate.
In sala eravamo in pochi (intorno alla decina di persone per 384 sedie) e quasi tutti non proprio giovanissimi; all'uscita una donna mi ha chiesto se il film mi fosse piaciuto, le ho detto di no e anche lei mi ha espresso tutta la sua delusione per un prodotto dal quale tutti ci aspettavamo molto, ma molto di più a livello narrativo, di contenuti e di poetica. La cosa che lei mi ha detto di aver temuto fino alla fine, è stato che qualche personaggio si prendesse la libertà di fare affermazioni fotocopia del tipo: "Ho visto cose...". Questo, fortunatamente, ci è stato risparmiato.
Capisco che si è cercato di legare i due prodotti utilizzando perfino tre degli stessi attori, ma riproporre Harrison Ford in quel ruolo, mi sembra francamente troppo, ma ovviamente non si voleva/poteva aspettare oltre (Harrison Ford ha 75 anni...). Non comprendo come Harrison Ford abbia accettato un compito simile, mettendo a rischio la propria credibilità, sia di  personaggio che di attore. Cosa non si fa per i soldi!
Confrontare Blade Runner con 2049 mi ha fatto lo stesso effetto che ha fatto a Deckard trovarsi di fronte alla falsa Rachel (Lorena Peta). Non voglio dire che 2049 sia un brutto film perché di fatto non lo è, ma le aspettative che crea sono a tutti gli effetti troppo grandi per poter essere mantenute. Anche se i ritmi, soprattutto all'inizio, fanno rasentare il sonnellino... Altra domanda che mi pongo è: come si fa a pensare che il pubblico possa restare incollato allo schermo per tutti i 163 minuti della proiezione? La tanto bistrattata Corazzata Potemkin durava soltanto 71 minuti... Il vero Blade Runner neanche due ore.
Veniamo adesso alle molte incoerenze della sceneggiatura. I replicanti Nexus 7 erano stati programmati in tutto e per tutto, comprese le loro funzioni specialistiche, di fatto erano dei super-uomini contro ai quali gli esseri umani non potevano minimamente compararsi. Si pensi alle evoluzioni  acrobatiche di Pris (Daryl Hannah) per sfuggire a Rick Deckard nel 2019 e ricordiamoci del fatto che Pris non era un replicante progettato per combattere, ma soltanto per svagare le truppe...
Perché Deckard invecchia? Non doveva essere anche lui un androide? (glielo disse Gaff/Edward James Olmos al termine del film) Come avrebbe potuto catturare Roy Batty (Rutger Hauer) se non avesse avuto la forza sovrumana di un essere migliorato dall'ingegno dell'uomo? E poi, Rick e Rachel avrebbero dovuto fuggire da una Los Angeles inquinata e sovrappopolata (106 milioni di abitanti) per nascondersi in quello che dovrebbe essere un'estensione del deserto del Mojave, ancor più invivibile e squallido? Rick Deckard e Rachel erano andati in volo verso la loro felicità, non verso la morte; lo si intuisce benissimo dagli orizzonti puliti di un mondo migliore dove non esiste alcuna forma di razzismo all'incontrario verso le specie più evolute... Troppi errori, troppe sviste, troppi accomodamenti narrativi non credibili e dissonanti: questo è il 2049 distopico che poco, o niente, ha a che vedere con l'epoca Tyrelliana del superuomo. 
Rachel non aveva data di scadenza, ma era l'eccezione, perché era la replicante favorita da Eldon Tyrell, praticamente una figlia per lui. Il gusto amaro che ci lascia in bocca Blade Runner alla fine era proprio quello di sapere che se lei non sarebbe morta o invecchiata, Deckard invece avrebbe avuto presto o tardi la sua "scadenza" e la felicità dei due amanti avrebbe avuto una breve durata, o comunque una durata imprecisata. Un po' come quella di noi semplici umani...
Ma cosa può saperne Ryan Goslin di queste faccende, quando lui aveva poco più di un anno e mezzo al momento dell'uscita nei cinematografi di Blade Runner, nel 1982? Ritengo che Hampton Francher (79 anni), sceneggiatore di Blade Runner e co-sceneggiatore di 2049 abbia molto giocato sulle défaillance della memoria del pubblico e sulla superficialità di chi si accosta a 2049 senza conoscere approfonditamente Blade Runner. Oppure l'età ha giocato  un brutto scherzo a questo autore?
Ad ogni modo, 2049 non è del tutto da buttare, purtroppo l'assenza di un'adeguata colonna sonora è pesantissima. Quattro note di richiamo a Vangelis non bastano, la produzione avrebbe dovuto osare di più e affidare le musiche ad un artista sperimentale, come pensava in un primo tempo di fare Villeneuve. Le citazioni sonore, e forse non solo quelle, al film fanno più male che bene. Non parliamo degli effetti sonori in 7.1 che distorcono l'audio e provocano fastidi auditivi, così come i livelli sonori troppo elevati. Il lavoro di Roger Deakins è superlativo, anche se troppo lezioso e in parte ingiustificato in alcuni effetti della sua magistrale illuminazione delle scene; atti spudoratamente a deliziare il pubblico più evoluto, ma privi di alcuna plausibile spiegazione narrativa. Io non vedo nessun momento iconico, frase storica o altro elemento degno di nota che potrà essere ricordato tra alcuni anni, o mesi, se non alcuni effetti speciali stupefacenti capaci di trasformare immagini e persone in ologrammi molto affascinanti e credibili anche sulla "pellicola". 
Il rapporto tra uomo e donna andrebbe molto approfondito e studiato perché dà adito ad una visione della figura femminile alquanto distorta, ma è evidente che il futuro ci riserverà qualche difficoltà nel relazionarci gli uni alle altre e parecchia solitudine. Se in Blade Runner un androide che si crede umano si innamora di un altro androide femmina che, al pari suo, si crede umano e vivono una storia d'amore tra esseri che forse non avendo un'anima non dovrebbero provare certi sentimenti... In 2049, un altro soggetto quasi umano che si crede androide e poi scopre di non essere forse né umano, né androide, pardon "replicante", si innamora di Joi (Ana de Armas), un ologramma svuotato da tutto, a detta di Mariette (Mackenzie Davis). Un mondo un po' complicato, ma forse potrebbe essere davvero così in futuro, anche perché già oggi non mi sembra che siamo messi tanto bene in quanto a orientamento sentimentale e identità personale.
Tutto sommato, un film d'anticipazione che ci parla di un futuro imminente, piuttosto che di storie di fantascienza dove gli alieni siamo noi. Le guerre oggi non mancano, le bombe atomiche tascabili sicuramente qualcuno le tiene già in cantina, alla stessa stregua di coloro che dicono d'avere un reattore nucleare a fusione fredda.
Il fatto che i replicanti siano stai considerati sterili è un passaggio molto importante di tutta questa vicenda e sembra raccontarci di come anche per la scienza la riproduzione umana sia e rimanga un grande mistero al quale si può dare una risposta solo considerandolo, di fatto, un atto della creazione divina.
L'Universo Dickiano è davvero molto ampio, complesso e controverso, non sto ad insistere sui fattori del successo di Blade Runner che è diventato un vero classico moderno dal quale tutti vorrebbero poter attingere per poter giovare dello stesso successo, ma fortunatamente in quel film s'è attuata una magia impossibile da "replicare" in qualsiasi forma e contenuto. Resta il fatto che i temi toccati sono molto affascinanti e capaci di influenzare anche le generazioni future per molti anni ancora, forse fino a quando qualche segreto della vita ci sarà finalmente svelato dalla scienza, o da Dio... TG

Sean Young
Sean Young è Rachel, la vera icona di Blade Runner.

"Se sei convinto che questo Universo sia cattivo dovresti vedere gli altri..." Philp K Dick


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martedì 10 ottobre 2017

L'Hangar Bicocca diventa una Macchina del Tempo: ricreati gli Ambienti Spaziali di Lucio Fontana, cosa ne pensano Joe Iannuzzi e Tony Graffio

"Lo spazio è un'illusione fenomenica." Nanda Vigo


"Soffitto a luce indiretta", struttura ambientale al neon concepita per la IX Triennale di Milano da Lucio Fontana, 1951. Commissionato all'artista dagli architetti Luciano Baldessari e Marcello Grisotti.

E' stato un compito enorme che ha richiesto più di due anni di lavoro ed un impegno ancora maggiore per i curatori della mostra; la Fondazione Lucio Fontana ne ha approvato il progetto ed i metodi impiegati per riportare al pubblico i famosi Ambienti (Spaziali) di Lucio Fontana. 
Hangar Bicocca ha fatto tutto per bene; la mostra è d'importanza storica, perché permette ai visitatori di interagire con alcuni ambienti che per la prima volta dalla scomparsa dell'artista sono stati ricostruiti appositamente per questo spazio unico in Italia, e di grandissimo prestigio anche a livello europeo. Con i suoi 15'000 metri quadrati il gigantesco ex-capannone industriale di Pirelli è il più grande spazio continentale destinato alle esposizioni di arte contemporanea.
Nel team che ha organizzato questo evento troviamo: Marco Lanata, General Manager di Pirelli Hangar Bicocca; Vicente Todolì, Direttore artistico di Pirelli Hangar Bicocca e co-curatore della mostra; Paolo Laurini, Vice Presidente della Fondazione Lucio Fontana; Marina Pugliese, co-curatore della mostra; Barbara Ferriani, co-curatrice della mostra; tra i fornitori dei materiali e di assistenza tecnica la Clodsigns, una ditta di esperti artigiani che già all'epoca di Lucio Fontana era stata incaricata di realizzare le installazioni di neon degli ambienti spaziali. 
Il Fontana degli Ambienti non sarebbe comprensibile visto al di fuori del suo rapporto con l'architettura, sviluppatosi già dagli anni '30, proprio a Milano. L'artista italo-argentino ha anticipato il superamento dei generi artistici, cosa che è diventata prassi comune per molti artisti di oggi.
La prima e l'ultima opera esposte all'Hangar Bicocca sono strutture ambientali, anziché ambienti: questa differenza è messa in luce dal suo stesso autore in una lettera allo storico e critico d'arte Enrico Crispolti. Per Fontana le strutture ambientali sono opere realizzate su commissione di architetti per spazi ibridi aperti. Per questo Hangar Bicocca ha sottolineato questa scelta allestendo una struttura al suo ingresso, nel grande spazio industriale di Pirelli, in modo da far dialogare il capannone con il suo  ruolo culturale. Le immagini della struttura al neon del 1951 circolarono molto sulle riviste di architettura di quegli anni, così come il soffitto al neon per Italia '61, a Torino, che venne pubblicato, nel 1967, su "Art in America" per raccontare cosa accadeva nel mondo delle commissioni d'arte. L'ambiente nero del 1949 venne realizzato per una mostra alla Galleria del Naviglio che durò solamente sei giorni. Quella non fu una mostra di opere, Fontana volle andare al di là del fatto oggettuale, ricorrendo perciò a luci estranianti e inventando nuove forme con le quali entrare in relazione fisicamente. Muoversi nello spazio provenendo dal buio crea una percezione dinamica di forme nuove. Si tratta di una scoperta eccezionale e Fontana ne è subito consapevole. E' lui a chiamare ambienti questi spazi e a comprendere la forza della sua creazione; per questo provò a rifare l'ambiente più volte. Uno shock culturale simile era stato vissuto nel 1946, quando gli americani posero delle fotocamere a bordo dei missili V2 sequestrate ai nazisti e furono in grado di vedere la Terra vista dallo spazio per la prima volta. Fotografie che vennero pubblicate per la prima volta sulla rivista americana: "Life". Fontana rimase basito da questa esperienza e la citò nel suo manifesto spaziale del 1948 scrivendo: "Ci siamo guardati dall'alto fotografando la Terra dai razzi in volo.". 
Il nuovo medium non è scultura e nemmeno pittura: non viene capito; però gli architetti lo apprezzano e Giò Ponti decide di metterlo in copertina. Fontana riuscirà a creare il suo secondo ambiente spaziale soltanto 11 anni dopo la realizzazione del primo, nel 1960, per la mostra: "Dalla natura all'arte", a Palazzo Grassi, gestito all'epoca da Franco Marinotti, proprietario della SNIA Viscosa. All'artista verrà commissionato un ambiente fatto con tessuti sintetici. Il curatore della mostra fu Willem Sandberg, direttore del Museo Stedelijk (In quegli anni, il museo più sperimentale per l'arte contemporanea) di Amsterdam dal 1945 al 1963.
La mostra in Pirelli HangarBicocca è stata realizzata con il duplice obiettivo di restituire un'immagine fedele dell'opera ambientale di Lucio Fontana e di sottolineare il contributo e l'incredibile valore innovativo del lavoro dell'artista nel contesto della ricerca ambientale degli anni cinquanta e sessanta.
Per "Ambienti/Environments" sono state meticolosamente ricercate non solo le fonti storiche ma anche quelle materiali, in modo da restituire fedelmente ogni dettaglio significativo degli ambienti. Questi lavori sono opere in cui è possibile immergersi; richiedono la partecipazione dello spettatore e la loro ricostruzione completa rappresenta spesso l'unica possibilità di fruirle nella loro interezza.
"Ambienti/Environments" è una mostra effimera, probabilmente irripetibile, sia perché riunisce ben 9 dei 18 ambienti progettati da Fontana (alcuni dei quali mai ricostruiti) in tutta la sua carriera artistica, sia perché questi lavori saranno distrutti al termine dell'esposizione. Per il visitatore l'opportunità di vedere e sperimentare certe esperienze è quindi unica, vale davvero la pena di recarsi all'Hangar Bicocca, fino al 25 febbraio 2018, (l'ingresso è gratuito) e "Frammenti di Cultura" non poteva certo ignorare questo evento di portata mondiale. 
Ho scelto d'illustrare questo mostra molto particolare con le fotografie storiche che mi sono state gentilmente concesse dalla Fondazione Lucio Fontana di Milano, e di commentare questa opera insieme al mitico ed inossidabile Joe Iannuzzi che per l'occasione è venuto appositamente a Milano da New York.

Cosa pensano di questa operazione Joe Iannuzzi e Tony Graffio

Tony Graffio: Ciao Joe, come stai?

Joe Iannuzzi: Molto bene, grazie e tu?

TG: Bene anch'io. Ultimamente, m'è capitato di vedere una mostra molto interessante durante la presentazione degli Ambienti Spaziali di Lucio Fontana, ero lì lo scorso 19 settembre per la conferenza stampa. Pensavo di incontrarti, ma non ti ho visto. E' stata un'esperienza molto bella, m'è piaciuto il gran lavoro fatto e le spiegazioni che ci sono state date, anche se...

JI: Ah davvero, sono piaciuti molto anche a me... Anch'io li ho visti nel giorno dell'inaugurazione fatta per i Vip e la stampa.

TG: Possibile? Ma dov'eri?

JI: Beh sai... senza offesa, tu sei un Vip di piccolo calibro, io invece sono un vero Vip e sono stato invitato alla sera, perché poi abbiamo avuto una cena favolosa con Marco Tronchetti Provera, gli organizzatori, Flavio Caroli e pochi altri personaggi che contano davvero nel mondo dell'arte, della cultura e dell'economia.

TG: Mi fa piacere per te, io ho fatto un tentativo per infiltrarmi, ma questa volta non c'è stato proprio niente da fare, chissà poi di cosa avrete parlato... Di questa operazione rievocativa, invece che cosa ne pensi?

JI: Mi è piaciuta molto; ho molto apprezzato la cura e l'impegno che tutti hanno profuso in qualcosa che è davvero fuori dal comune. Io avevo qualche vago ricordo di questi ambienti, però è passato davvero tanto tempo da quando conobbi Lucio Fontana e mi trovai in presenza delle sue opere.

TG: Veramente? Tu le avevi viste? E dove?

JI: Come, non te ne ho mai parlato? Ero davvero giovanissimo nel 1951, ma già dovevo provvedere a mantenermi e per questo stavo iniziando a fare i miei primi lavoretti da garzone di bottega. Figurati che davo una mano ai miei colleghi della Pastelor (La Compagnia Lampade Pastelor SpA era un'azienda francese di illuminazioni al neon che faceva parte dal Gruppo ITT. Quando nel 1956 il gruppo americano decide di dedicarsi alla produzione di televisori abbandonò gli altri settori d'interesse e la Pastelor passò le consegne dell'attività alla Clod che prese il nome dell'inventore dei neon George Claude, italianizzato per assonanza in Clod. La Clod realizzò molte delle iconiche pubblicità luminose che un tempo arredavano la facciate degli edifici di fronte al Duomo di Milano e che sono state per molti anni il simbolo di una città fortemente dinamica, operosa e tecnologica. La Clodsigns è ancora in attività ed ha sede a Rozzano, nello stesso stabilimento utilizzato dalla Pastelor) ed insieme a loro abbiamo montato la struttura al neon per Fontana; ti parlo della IX Triennale di Milano. Lucio era sempre molto allegro e gentile, anche con noi operai. Forse, è stato in quel momento che ho iniziato ad appassionarmi all'arte ed ho capito che nella vita quello che conta è arrivare primi in ogni campo, specie con idee innovative e tecnologie moderne. 

TG: Riesci sempre a sorprendermi! Quindi tu hai aiutato a produrre il grande neon?

JI: No, ho solo aiutato a montarlo, ma in pratica non ho fatto nulla se non trasportare dei materiali, perché sai com'è... era una responsabilità troppo grossa da affidare all'ultimo arrivato.

TG: Immagino... E degli altri ambienti ricordi qualcosa? Li hai mai visti prima?

JI: Sai che ero stato ad Amsterdam nel 1967, nel vecchio Stedelijk Museum, proprio nel periodo in cui Lucio Fontana aveva esposto il suo ambiente spaziale con neon ed un altro ambiente più scuro illuminato con la luce di Wood? Io veramente ero lì con una giovane un'attrice svedese, mi voleva vedere per l'ultima volta, prima che partissi per trasferirmi definitivamente negli States...


Lucio Fontana Ambiente spaziale con neon, 1967
neon rosso Foto: Stedelijk Museum, Amsterdam
© Fondazione Lucio Fontana, Milano

TG: Era davvero rosso l'ambiente, o era piuttosto rosa?

JI: Era di un bel rosso, lo ricordo benissimo perché Britt indossava un abitino morbidissimo di seta dello stesso colore e si mimetizzava alla perfezione in quella stanza dal pavimento di legno. In seguito, hanno fatto un po' di confusione perché la fotografia non era riuscita a cogliere la colorazione originale del neon. Non è facile fotografare i tubi al neon che, per un problema di diversa intensità luminosa, al loro interno possono risultare sovraesposti rispetto all'ambiente circostante.

TG: Te la sei spassata da giovane, vero Joe?

JI: Ho fatto del mio meglio, caro Tony, ed oggi non ho rimpianti, solo bei ricordi.

TG: Joe, ma alla tua veneranda età, sei davvero sicuro di ricordare ciò che hai visto?

JI: Certamente, gli anni passano, non si può ricordare tutto alla perfezione, ho conosciuto tanta gente e visto tante cose; però ti posso dire che Britt era una ragazza formidabile, impossibile da dimenticare. Anche le opere di Lucio Fontana, a quell'epoca erano davvero sconvolgenti, molto innovative, perché nessuno aveva ancora pensato a fare cose del genere. Per me, fu molto importante essere al cospetto di una tale rivoluzione del pensiero artistico.


Lucio Fontana Ambiente spaziale, 1967
Colori fosforescenti e luce di Wood
Foto: Stedelijk Museum, Amsterdam © Fondazione Lucio Fontana, Milano

TG: Io non so cosa pensare di questa operazione culturale promossa da Pirelli: chi come te ha visto gli originali, conserva più che un ricordo di ciò che ha visto davvero, il sapore di certe emozioni dettate da anni in cui tutto sembrava possibile. In fin dei conti, anche tu che venivi da una famiglia piuttosto umile hai avuto occasione per entrare in contatto con un mondo elitario e fatato, per non dire magico... Hai però avuto l'intelligenza di capire che posti vedere e che gente frequentare, non è così?

JI: In parte sì, hai ragione, il nostro era un mondo dove tutto era ancora da scoprire, da conoscere e da inventare...

TG: Io sono convinto che comunque tu ricordi poco di ciò che hai visto, mentre tutti gli altri nemmeno sanno di cosa stiamo parlando. In un clima del genere non dev'essere tanto difficile cercare di riprodurre un'opera in modo fedele, tanto l'autore non c'è più, i progetti sono in parte andati persi, gli spazi sono stati distrutti e chi non c'era, comunque tu gliela racconti, è ben felice di starti a sentire e di farsela raccontare. Chi può veramente accorgersi se qualcosa è fuori posto?

JI: Beh, sai di molte installazioni di Fontana ci sono ancora i progetti, le descrizioni dei materiali utilizzati, i prospetti delle piantine degli edifici e delle sale che hanno accolto gli ambienti e alcune fotografie dell'epoca. Sono state ritrovate le lettere in cui Fontana descrive agli architetti, agli organizzatori o agli artisti con i quali aveva collaborato tutti i materiali impiegati. Descrive anche il tipo di tela Olona nera che voleva utilizzare; da notare che la stessa tela è ancora in commercio ed è stata utilizzata in questa ricostruzione. La ditta Clod utilizza ancora oggi le stesse tecnologie e lo stesso ciclo produttivo di circa 70 anni fa. I colori fluorescenti sono gli stessi colori fluorescenti degli anni '50, perché la base dei pigmenti è assolutamente la stessa. Sono state recuperate le bolle di consegna e le fatture; le polizze delle assicurazioni. Nei casi in cui non si disponeva delle misure degli elementi sono stati presi dei rilevamenti direttamente sul posto, come è successo per la Galleria del Naviglio. In quel caso, Giorgio Cardazzo ha fornito a Marina Pugliese una pianta degli spazi che poi sono stati verificati dagli architetti di Hangar Bicocca e si siamo accorti che tutto corrispondeva alla perfezione. Questo per dirti che se non parliamo di copie esatte, di sicuro chi s'è occupato di questa operazione è andato vicinissimo al risultato ottenuto in origine.

TG: Ho capito, però basta cambiare un punto di vista perché tutto appaia in modo diverso e incomprensibile, come si fa a sapere esattamente com'era il disegno, dove andava fatta iniziare una curva di un neon e cose di questo tipo? C'erano degli intrecci prospettici che ti possono anche ingannare, non mi sembra proprio tutto così semplice come dici tu, infatti; sembrerebbe che questa operazione abbia richiesto parecchio tempo, a meno che non sia tutto un bluff. Come si può avere la certezza che questi signori abbiano realizzato le copie perfette di opere che non esistono?

JI: Dobbiamo basarci sui documenti a nostra disposizione e ascoltare qualche personaggio ancora vivente, come Nanda Vigo che ha collaborato con Fontana alla creazione di "Utopie", in occasione della Triennale del 1964 e di un altro ambiente, nel 1968, alla Galleria della Polena di Genova. Comunque, alcune ricostruzioni sono state fatte anche in passato e poi sappi che il 3 ottobre del 1967, a Genova Boccadasse, presso la Galleria del Deposito, Fontana fa un happening ed in un solo giorno realizza un nuovo ambiente, l'unico che s'è salvato ed è pervenuto fino a noi. Adesso è esposto nelle collezioni del Museo di Arte Contemporanea di Lione dove è in corso "Mondes Flottants", la 14a Biennale di Lione; per questo non è stato possibile portare quell'ambiente a Milano

TG: Nanda Vigo nonostante l'età se la cava ancora bene...

JI: L'età non risparmia nessuno caro mio, ma lei si ricorda ancora molto bene di quello che ha vissuto, io la conosco bene. Credo che aver ricostruito questi lavori possa dare ai giovani di oggi un'emozione che soltanto vedendo le fotografie o leggendo quello che era stato scritto 50 o 60 anni fa non avrebbero mai potuto provare. Se consulti un libro o una pagina di internet, dopo un minuto stai già guardando a qualcos'altro e pensando a cose che non hanno più nulla a che vedere con quello che volevi conoscere, mentre averne fatto parte essendoci stato fisicamente dentro, vivendo queste opere d'arte in prima persona è tutta un'altra esperienza. Essere immerso nello spazio, vederne i colori, percepirne le forme,  le luci e l'atmosfera, camminare su materiali scelti direttamente dal suo autore diventa un momento indimenticabile, se invece la lasci su una fotografia resta un'esperienza piatta e morta.

TG: Mi viene in mente proprio Utopie, presentata alla XIII Triennale di Milano nel 1964, quella grossa scatola dove si cammina su un pavimento gommoso e ondulato ricoperto dalla moquette molto pelosa, ricostruita grazie al ricordo di Nanda Vigo...

JI: Sì?


I Frammenti di Culturadi Tony Graffio
Lucio Fontana, in collaborazione con Nanda Vigo
Ambiente spaziale: “Utopie” nella XIII Triennale di Milano, 1964
Ambiente a forma di corridoio con pavimento gommoso
Foto: Publifoto Courtesy Archivio Fotografico
© La Triennale di Milano e © Fondazione Lucio Fontana.

TG: Sono opere interattive, se cammini in quello spazio diventi parte dell'opera?

JI: Certo. Fontana era uno spazialista che ha avuto il merito di far comprendere al pubblico l'importanza dello spazio. Con lui, l'opera ha smesso d'essere piatta su una superficie bidimensionale, ma ha acquisito una tridimensionalità che prima non c'era. In queste opere non interagisci veramente, ci sono altri artisti, venuti dopo di lui che hanno introdotto questo concetto, pensa agli artisti del GRAV (Gruppo Arte Ricerca Visuale), a Gianni Colombo, al Gruppo N, o a Jesus Rafael Soto e a Carlos Cruz-Diez ed alle sue Fisiocromie, ovvero a degli ambienti luminosi di grande fascino... Però tutto questo è venuto dopo Lucio Fontana. Pensa che Fontana già nel 1949 si occupava di questi "Ambienti" in modo rivoluzionario e nessuno, prima di allora, aveva pensato di fare una cosa simile. L'opera non è più qualcosa di piatto, ma è tridimensionale, tu che la vedi fai parte dell'opera e lo spazio in cui è l'opera diventa l'opera stessa.

TG: Va bene, perdonami, ma non c'era già la scultura come rappresentazione tridimensionale di quello che voleva esprimere l'artista?

JI: No, perché la scultura tu la puoi mettere dove vuoi... Certo, la scultura è tridimensionale, ma che tu la metta in una sala privata, in un museo o all'aperto è sempre la stessa cosa; mentre questi ambienti sono un tutt'uno hanno le loro pareti, sono illuminate solo da neon che creano effetti luminosi con l'ambiente scuro che li circonda...

TG: E' qualcosa che si basa molto sulle percezioni visive ed anche un po' sulle illusioni ottiche, credo. Uno pensa di essere in un certo tipo di spazio, invece non sempre è così. In quello spazio tagliato a metà da piccole luci circolari avevo l'impressione di trovarmi davanti ad uno specchio, ma lo specchio non c'era.

JI: Sì, anche il discorso tattile è importante, pensa alla moquette su un fondo elastico in quell'ambiente illuminato dal neon rosso... C'è un'interazione di quasi tutti i sensi con l'opera d'arte.

TG: Perdonami Joe, ma quando io vado al Luna Park trovo delle cose analoghe a quelle di cui tu mi parli ed ho anche sensazioni più intense...

JI: Certo, però sono cose diverse...

TG: Ho capito, non le ha studiate Lucio Fontana, ma cosa cambia?

JI: Non vengono classificate come arte...

TG: Qual'è allora il confine tra arte e Luna Park? Anche in certi padiglioni entri, schiacci qualcosa di molle non ben definito, sei al buio, o in penombra, non capisci dove ti trovi e provi delle sensazioni, belle anche, no?

JI: Sì, vero, tu mi parli della "Casa stregata" del "Tunnel degli orrori, di certi labirinti o degli specchi deformanti? Quelle sono esperienze che ti provocano certi tipi di emozioni, come la paura, la sorpresa, il divertimento; invece all'Hangar Bicocca hai provato altri tipi di emozioni che vanno al di là della paura e ti danno un senso di partecipazione con quello che voleva esprimere l'artista e ti fanno diventare una "Opera d'arte"... Io la vedo in questo modo.

TG: Caro Joe non mi convinci, per di più quello che abbiamo visto in via Chiese 2 non sono opere d'arte, ma copie...

JI: Si, più che copie sono dei rifacimenti che si sono basati sulle informazioni disponibili: fotografie, documenti, testimonianze; per alcuni ambienti spaziali in mostra non c'erano disponibili documentazioni ed hanno dovuto chiedere a Flavio Caroli che cosa si ricordava... Non sono sicuramente gli originali che sono andati perduti, o per meglio dire sono stati buttati via, perché così era previsto che venisse fatto ed infatti, anche al termine dell'esposizione all'Hangar Bicocca tutto verrà eliminato. Sono opere che servono al momento, vedi il neon progettato per la Triennale o quello presentato alla Galleria del Naviglio, sono opere che vanno consumate in questo modo...

TG: Sono troppo ingombranti, diciamocelo e del tutto inutili. Chi se le accolla? Nessuno!

JI: Il discorso della dimensione è importante. E' diverso avere un neon da cm 3 o uno da 30 metri... Noi siamo umani e ci rapportiamo con gli oggetti che hanno una funzionalità adatta alle proporzioni del nostro corpo.

TG: Siamo davvero sicuri di essere umani?

JI: Sì, nel senso che siamo fatti di emozioni, pulsioni, sensazioni e di tutte queste impressioni, a volte aleatorie.

TG: Per quello ci piace l'arte contemporanea?

JI: Sicuramente, ma cerchiamo di capire che l'arte contemporanea prima di tutto tocca l'intelletto perché è un prodotto culturale che solo dopo, in alcuni casi, può suscitare emozioni; quindi per comprenderlo bisogna essere un po' preparati e sapere quello che si va a vedere.

TG: Lucio Fontana, nella sua epoca, negli anni '50 e '60, è stato compreso?

JI: Sì, Fontana è sempre stato ritenuto, anche dai suoi colleghi, il Maestro di tutti. In Italia, e a Milano in particolare, in quel periodo c'era un terreno culturale molto fertile; probabilmente eravamo al centro del mondo dell'arte.

TG I cervelli e le idee erano qua.

JI: Sicuramente, Milano è stato un polo importantissimo della cultura, cosa che purtroppo non rappresenta più ai nostri giorni.

TG: C'era tanta voglia di fare!

JI: C'erano anche le idee e ci si sentiva protagonisti del proprio tempo, sensazione che oggi è assente dalle arti, ma anche dagli altri settori produttivi, con la conseguenza che si è meno motivati e si è meno spinti a fare ed a innovare.

TG: Di Fontana e dei suoi tagli se ne parlava anche dal parrucchiere...

JI: Sicuramente, c'era un grosso dibattito e per molti già allora quella non era arte. Era un argomento che faceva parlare tutti.

TG: Un risultato l'aveva ottenuto allora?

JI: Ma sai, per un artista non c'è solo quello, o meglio, per certi artisti molto dotati. Per loro la cosa veramente importante è continuare a ricercare e trovare qualcosa d'innovativo e di riuscire ad esprimere concetti diversi da quelli espressi precedentemente. Al di là di épater le bourgeois. Oggi, il mercato, e soprattutto la finanza, hanno cambiato le regole in modo da legare moltissimo l'arte all'economia e quindi l'arte diventa uno strumento della finanza.

TG: La Borsa offre pochi guadagni in tempi troppo lunghi, mentre l'arte può offrire dei vantaggi che la finanza spesso non sa dare.

JI: Certo, questo sì; può rappresentare un investimento speculativo capace di rendere molto in poco tempo. Però se viene vista in questo modo l'arte non segue più le regole degli anni '60 o '70, ma subisce altri effetti. Giusto o sbagliato ormai è così.

TG: E quando la finanza va in crisi, va in crisi anche l'arte?

JI: Sì e crollano anche le quotazioni di certi artisti, cosa che è già accaduta.

TG: L'arte non è un bene rifugio?

JI: Assolutamente no. L'arte è un bene altamente speculativo; in questo campo è possibile guadagnare tanto, ma anche perdere tutto.

TG: Resta però la soddisfazione di avere qualcosa di bello...

JI: Bello...

TG: Insomma...

JI: Dipende... (risate) L'opera non deve essere bella o brutta, ma deve funzionare e per funzionare deve avere dei rapporti di colore; rapporti di forme; interazione. Questi sono gli elementi da ricercare in un'opera d'arte; oltre alla storia di chi l'ha creata, dove ha esposto, in che musei vengono conservate le opere e via dicendo.

TG: Fontana era chiaramente una persona degna di nota, se proprio non lo si vuole chiamare un genio, era stimato da tutti, era generoso con gli artisti più giovani.

JI: Era generosissimo con tutti, a volte scambiava alla pari i suoi lavori con quelli di artisti che non si sapeva nemmeno se avrebbero avuto un futuro. 

TG: Anche con Salvador Presta fece così, vero?

JI: Sì, Presta venne ospitato da Fontana che lo fece esporre alle sue mostre e consigliò la gente di comprarne opere. Fontana aveva già una certa età quando aiutò chi ancora non aveva un successo economico, poteva farlo perché le sue opere si vendevano bene.

TG: Ci sono indubbiamente dei bei personaggi, ma ti dirò la verità, io ho sempre il solito dubbio: l'arte contemporanea è carina, divertente, simpatica, nasconde dei concetti interessanti, è stimolante, però è davvero arte? Oppure è soltanto pubblicità con un altro nome? Certe azioni sorprendenti servono per farsi conoscere, per attirare l'attenzione, per proporre un prodotto (inutile) e per incassare del denaro, non credi?

JI: Se tu pensi a questa prima installazione di Fontana alla Galleria del Naviglio ti accorgi che eravamo nel 1949; sono già passati 68 anni da allora. Se un'opera così vecchia ti sorprende ancora adesso vuol dire che funziona. L'idea di stupire il borghese c'era già con gli Impressionisti; c'è sempre stata la convinzione che l'arte debba stupire e dire qualcosa di nuovo. Il suo primo approccio con il pubblico è quello di attirare l'attenzione. E' come quando vedi una donna; la prima impressione che ti fa è importante.


Frammenti di Cultura Tony Graffio
Lucio Fontana Ambiente spaziale a luce nera, 1948-1949
Cartapesta, vernice fluorescente e luce di Wood
© Fondazione Lucio Fontana, Milano.

TG: Anche la pubblicità funziona così: se è sorprendente te la ricordi e funziona, altrimenti no e non fa il suo effetto.

JI: Vero. Al momento è così, poi cambi canale e pensi ad altro. Nel mondo dell'arte di oggi c'è internet, nell'universo digitale in cui noi tutti viviamo, ne vedi di cose... Se non riescono ad attirare subito l'attenzione, chi le prenderà mai in considerazione? Se non fai qualcosa di eclatante, chi verrà mai a vedere le tue opere? Certe opere non vengono capite subito e poi vengono rivalutate, pensa anche al cinema. Blade Runner quando uscì non fu un successo commerciale, eppure col tempo è stato visto da tutti; adesso è diventato un'icona importantissima che ha fatto scuola ed ha cambiato totalmente l'idea del futuro, il design e perfino i modi di dire. E' un'opera "Cult" che ha lasciato un segno indelebile nella storia del cinema, ma anche nella vita delle persone.

TG: Blade Runner ha veramente stravolto il modo di vedere certe cose, ma non dimentichiamo che per quel film ha funzionato di più l'operazione di marketing fatta a posteriori per gli appassionati che volevano sapere tutto di come era stato fatto il film, piuttosto che il battage pubblicitario iniziale che doveva proporre qualcosa che ancora non si conosceva. Bisognava capire gli effetti speciali di Douglas Trumball, rileggere la sceneggiatura, comprare il CD della colonna sonora di Vangelis, vedere gli schizzi originali dei progetti di Syd Mead, conoscere meglio l'autore del romanzo, Philip K. Dick, e tutto il resto. Sembra comunque che Ridley Scott sia partito dal famoso quadro Nighthawks di Edward Hopper per raccontare le atmosfere cupe della città di notte e della sua solitudine esistenziale.

JI: Comunque sia, l'arte deve attirare il pubblico; il primo approccio è quello, anche se non deve limitarsi solo ad un richiamo visivo o emozionale, perché per avere una durata nel tempo l'artista deve proporre dei significati universali ed essere capace di esprimere dei valori. Perché questi lavori di Fontana oggi sono stati rifatti a distanza di tanti anni? Sicuramente per motivi pubblicitari, come dici tu, questioni di marketing e di prestigio di un marchio multinazionale che vuole legare il proprio nome a quello di un grande artista. Ma non si tratta solo di questo. Non è una cosa da poco ciò che ha fatto Pirelli, come hai visto, la Fondazione Lucio Fontana ha approvato questa operazione perché è stata fatta bene ed ha ancora qualcosa da dire.

TG: Eh sì, è stato fatto tutto... "a regola d'arte"...

JI: Beh, sì... direi di sì. Credo che Pirelli abbia "regalato" una bella situazione a chi era interessato a rivivere quelle esperienze, come me, o a vederle ex-novo, come può essere il tuo caso. A me, questi progetti sono sembrati ancor oggi molto freschi, nonostante siano passati molti anni dalla loro ideazione. Anche se in maniera meno sfruttata, ancora oggi la luce al neon può essere utilizzata per scritte pubblicitarie, scenografie ed in ambienti in cui ci sia la necessità di creare un certo effetto di visibilità e saturazione di colore. Questi primi ambienti di Fontana, effettivamente rasentavano anche un discorso scenografico ed allo stesso modo di come una scenografia veniva allestita, poi smontata ed infine alienata, anche gli "Ambienti" di Fontana hanno subito questa sorte. Pensa alle strutture scenografiche che vengono utilizzate per La Scala di Milano, qualcosa forse rimarrà, soprattutto i costumi, o magari certe parti verranno riciclate per fare altre cose, ma il resto viene buttato. E' normale.

TG: A tuo giudizio, in che momento l'arte ha rotto definitivamente con la tradizione ed ha voluto esprimere qualcosa di totalmente diverso?

JI: Con Marcel Duchamp.

TG: Non con Picasso?

JI: Picasso rappresenta un artista molto importante del '900 che ha preso da tante correnti ed è riuscito a fare un suo discorso personale, però io ritengo che Duchamp rappresenti la rottura con la pittura a lui precedente. E' lui che ha introdotto il discorso concettuale di un oggetto di uso quotidiano che può essere decontestualizzato e rappresentare qualcosa di diverso. Vedi l'orinatoio che capovolto e girato può essere messo in un museo come un'opera d'arte che la gente vuole vedere e per di più paga un biglietto per farlo. Quella è stata la linea di frattura nel modo di concepire l'arte.

TG: E' lì che l'arte visiva ha smesso d'essere visiva?

JI: In un certo senso sì.

TG: Perché si vuol spacciare per "pittura" qualcosa che pittura non è? Anche Fontana con i suoi tagli dice d'aver voluto andare oltre la tela, però ripeto, la scultura, il teatro, la scenografia, la performance, l'opera lirica, la poesia, il circo e i Luna Park già esistevano. Anni fa a Parigi, non ricordo esattamente in che museo, forse al Jeu de Paume, ho assistito ad una rappresentazione scenica bellissima; una specie di diorama, per il quale si entrava in una stanza cilindrica normalmente arredata e poi ci si ritrovava nella foresta tropicale tra pappagalli, farfalle e animali feroci, giochi di luci, ombre, suoni e tutto il resto. Si trattava di un ambiente spaziale ben più bello e sorprendente di quello di Lucio Fontana e risaliva alla metà del 1800, tutto era fatto di legno, tela e materiali naturali. Alla fine, certi artisti contemporanei non sono altro che bravissimi venditori che ti sanno proporre un'idea proveniente da un altra situazione come qualcosa di straordinario, ma è solo un'abilità di marketing che sa sfruttare un nuovo possibile mercato in espansione.

JI: Fontana ha effettivamente iniziato la sua carriera come scultore, faceva le ceramiche. Tutte le sculture sono tridimensionali, a parte i bassi rilievi, su questo non c'è dubbio. Può essere che lui abbia saputo interpretare la voglia di novità di un momento storico in cui c'erano grandi cambiamenti sociali, economici, industriali e c'era una grande voglia di novità; eravamo giustamente alle porte della "era spaziale" e dell'esplorazione di altri mondi...

TG: Io credo che mischiare le carte in tavola sia solo un'operazione ruffiana per poter dire d'aver fatto qualcosa di nuovo, se tutti si attenessero alle discipline con maggior precisione ci sarebbero meno occasioni di sorprenderci e forse potremmo veramente capire e conoscere chi ha la genialità di dirci qualcosa di nuovo dal punto di vista della visione e del linguaggio visivo; non come quegli artisti che ti fanno vedere un lampadario appeso ad un soffitto, inseriscono della musica di sottofondo e dicono d'aver creato un'opera "nuova", ma dicendo questo capisco, a differenza di molti, di essere un purista. Senza citare coloro che periodicamente si propongono come autori rivoluzionari,  o giovani fenomeni, senza prima conoscere bene ciò che è accaduto in passato nella storia dell'arte. Non ti sembra eccessivo voler spacciare la musica per arte visiva?

JI: Dipende come vengono accostate le cose... Già negli anni '60 si pensava di fare delle interazioni con la musica per far ambientare lo spettatore in modo completo. Musica, odori, superfici che si possono toccare, coesistono nelle opere di tanti artisti dell'arte ottico-cinetica. In certe mostre trovavi la scritta: "Vietato non toccare". Il tutto per coinvolgere maggiormente le persone e far fruire a 360° di quello che veniva esposto, non soltanto guardando le opere con gli occhi.

TG: Joe sarò brutale: perché bisogna inventare l'acqua calda per essere tacciati di genialità? Mettiamola così, visto che continui a voler ignorare che tutte quelle discipline che ti ho citato già esistevano da secoli...

JI: Beh, allora il Grande Fratello non è anche quello la "acqua calda"?

TG: Infatti non è arte...

JI: No infatti, ma l'uomo cerca sempre di creare qualcosa di nuovo...

TG: E quando non lo è, pretende che lo sia?

JI: In quel caso si azzera tutto quello che è venuto prima e si dice che da oggi si fa tabula rasa per ripartire da capo, un po' com'è successo con la tela bianca di Fontana.

TG: Un po' come nel lancio del giavellotto, quando nel 1991 si decise di cambiare l'attrezzo e ridistribuirne i pesi perché gli atleti stavano raggiungendo distanze troppo pericolose e tutti i record precedenti vennero azzerati?

JI: In qualche modo sì, l'idea è quella di ricominciare da capo. Un taglio, due tagli, tre tagli e si va oltre... per ripartire.

TG: E perché?

JI: Perché l'uomo cerca sempre la novità, quello che è stato detto prima è stato detto molto bene e da tante persone, non resta più niente da aggiungere, per questo bisogna stravolgere tutto e cercare nuove espressioni, altrimenti non si potrebbe aggiungere altro.

TG: Non penso che tutto ciò venga fatto solo per dare nuove opportunità ai nuovi artisti; a me questa operazione sembra fatta esclusivamente per creare nuovi mercati, per cercare di vendere prodotti nuovi e piazzare opere diverse da quelle già fatte, in modo di dare ai collezionisti la possibilità di parlare di qualcosa di diverso. Non potendosi confrontare sulla effettiva bravura di un artista capace di fare cose uniche ci si confronta su un piano dialettico e su una presunta innovazione, senza contare poi che l'opera che un tempo veniva realizzata da persone capaci di fare manualmente cose impossibili da fare altrimenti; poi sono state affidate agli artigiani ed infine all'industria. Per me l'artista resta e sarà sempre colui che con le sole proprie forze riesce a costruire o rappresentare qualcosa che nessun altro è capace di fare in altro modo. Tutto il resto è aria fritta e marketing.

JI: L'artista svolge una ricerca intellettuale...

TG: Ok, va bene, ma per quello c'è la letteratura, la fisica, la scienza, l'ingegneria, la poesia... il risultato dell'arte visiva si deve vedere, non discutere al bar come una partita di calcio...

JI: Ma se in un campo la ricerca è già arrivata alle sue massime espressioni, che cosa rimane da fare?

TG: Insomma, mi stai dicendo che l'arte contemporanea è una masturbazione intellettuale?

JI: Tu estremizzi il concetto... Pensa all'espressionismo. Vorresti che qualcuno oggi andasse avanti a fare quel tipo di pittura?

TG: Il mio amico Francesco Chieppa lo fa ed è molto apprezzato in Germania, nella terra che ha dato i natali agli espressionisti.

JI: Ok, sarà bravissimo, ma che senso ha rifare delle cose già fatte 100 anni fa?

TG: Forse sarebbe meglio fare così, che pretendere d'inventare qualcosa di nuovo che nuovo non è, perché certi segni contemporanei erano già presenti nelle grotte di Altamura o nei disegni dei bambini...

JI: Tutti si sono basati su qualcosa che c'era già... Nessuno è nato in modo avulso dalla storia. Tutti hanno letto studiato ed imparato cosa è accaduto prima di loro. Tutti coloro che si sono fatti un nome hanno imparato dal passato e dal passato hanno preso qualcosa.

TG: Joe, tu sei un grande gallerista internazionale, te lo chiedo nuovamente e in modo ancora più esplicito, mi devi assolutamente dare una risposta sincera, in amicizia: il discorso dell'artista che vuole andare oltre i limiti del conosciuto è un'esigenza creativa ed egocentrica, diciamo così, oppure è un esigenza commerciale del mercante che vuole trovare qualcosa di nuovo da venderti? In qualche modo, più alla moda...

JI: E' un'esigenza di tutti, sia dell'artista che vuole dire la sua e non ripercorrere vecchie strade, che del mercante che dopo un po' fatica a venderti anche gli autori più osannati.

TG: Pensa alla fotografia, ha quasi 200 anni, però ti puoi sempre occupare di soggetti nuovi e tentare di raccontare ciò che vedi in modo diverso, certo il linguaggio è quello ed è un bene che non cambi. Nel caso dell'arte contemporanea trovo che si tratti di una continua ricerca di linguaggi diversi.

JI: Hai detto, bene, è proprio questo: una ricerca di linguaggi diversi. L'arte è un linguaggio ed ogni volta gli artisti, quelli davvero grandi, riescono a trovare un loro linguaggio personale che appartiene solo a loro.

TG: In questo modo mi sembri sostenere l'assioma che tutto è arte allora.

JI: Non è vero che tutto è arte, certe cose però vengono capite soltanto 50 anni dopo.

TG: Allora siamo di fronte ad una grande quantità di artisti incompresi nel mondo?

JI: (Pausa che mi pare lunghissima) Mah, non penso, forse ai tempi di Van Gogh sì, ma oggi con la comunicazione che c'è mi sembra impossibile che un artista di valore non riesca ad emergere.

TG: Lo credi davvero?

JI: Sì, ai tempi di Van Gogh era molto difficile comunicare, pensa alle sue lettere, ma adesso con internet tutto è diverso...

TG: Invece, io sono convinto del contrario, un tempo se valevi riuscivi a dimostrarlo o ad emergere, mentre oggi l'eccesso di comunicazione nasconde il tuo messaggio in un oceano d'informazioni; pensa solo al fatto che a Milano 50 anni fa c'erano 100 gallerie ed oggi ce sono più di mille, stesso discorso per Parigi, New York, New Dehli, Singapore e per posti che un tempo nemmeno esistevano...

JI: Questo è vero, però c'è chi ha un potere informativo maggiore e chi meno.

TG: Vuoi dire che oggi c'è chi ha più denaro per comprarsi una critica favorevole, affittare una galleria d'arte in centro, o pagare una pagina su una rivista specializzata?

JI: Tony, tu vuoi sapere troppe cose del nostro ambiente...

TG: Allora basta stupire?

JI: All'inizio è indispensabile stupire...

TG: E avere alle spalle qualcuno che ti sostenga economicamente...

JI: Sicuramente!

TG: E' questa la ricetta del successo artistico? O manca qualcosa?

JI: Sì certo, Tony, mi stai mettendo con le spalle al muro... Ovvio, ci vogliono i soldi, le amicizie, le conoscenze...

TG: Dimenticavo la politica!

JI: In parte sì... Tutte queste cose contribuiscono molto!

TG: I gusti sessuali?

JI: Beh, questo non te lo so dire...

TG: Ah, perché non è importante chi ti porti a letto? Guarda Andy Warhol, tutti i suoi compagni sono diventati artisti molto quotati... Perché bisogna far finta di non vedere queste cose? Non è politically correct affrontare questi argomenti? O si infastidiscono le lobby dei potenti?

JI: (Risata) Onestamente non te lo so dire... Sai io sono un self made man... Le situazioni e le occasioni si creano, certo anche la fortuna gioca il suo ruolo: sicuramente per fare un artista di successo ci vogliono quegli elementi che tu hai menzionato.

TG: Ti ringrazio tantissimo, Joe, sai io con il mio blog sto proprio cercando di capire quello che può servire ad un artista per utilizzare una comunicazione efficace e non perdere troppo tempo in chiacchiere. Non mi sembra bello illudere i giovani, a volte è meglio essere brutali e metterli di fronte alla realtà delle cose. Bisogna trovare la comunicazione efficace perché questo, in fin dei conti, è quello che fa l'arte...

JI: Come ignorare che un linguaggio deve essere comunicato? In un mondo che vive di comunicazione, l'istantaneità, la facilità di raggiungere il pubblico e l'efficacia di un messaggio sono essenziali. L'arte come prodotto intellettuale e sociale del proprio tempo è a tutti gli effetti un modo per comunicare e farsi conoscere, cosa che ti può dare un riscontro solo se raggiungi certi livelli, investendo molto e dedicando il più possibile a questo mondo.

TG: Volevo chiederti ancora una cosa. Ci sono persone che magari sono più capaci a comunicare, o a disporre una campagna pubblicitaria, che a preparare un'opera che riscuota effettivo interesse, vuoi perché i contenuti non sono così profondi o perché il modo che è stato impiegato per realizzarli è un po' carente; comunque può essere che alcune componenti della ricetta per essere un buon artista siano un po' squilibrate? C'è chi è più capace a gestire rapporti e amicizie che a creare un prodotto culturale? In quel caso, può essere controproducente fare un'eccessiva pubblicità al proprio "prodotto", se questo non rende poi così bene?

JI: No, pensa a tutta la cultura anglosassone e all'importanza che la comunicazione ha per loro. Pensa al mercato americano; pensa a Damien Hirst che espone a Palazzo Grassi, a Punta della Dogana, a Venezia...

TG: Ti piace Hirst?!

Silenzio

TG: Ho capito!

JI: Hirst rappresenta quel tipo di cultura e la realtà anglo-americana dove contano quel genere di cose che menzionavi tu prima... Il marketing è decisamente fondamentale, e dal punto di vista tecnico, non penso che l'artista si sia messo a fondere personalmente gli elementi che compongono le sue opere. Ce ne sono alcune alte come palazzi...

TG: Ovviamente è un lavoro industriale.

JI: Ci sono tecnici che sanno quello che fanno; viene dato loro un progetto e le macchine, poi lo realizzano

TG: L'arte s'è allontanata dall'artigianato e adesso è diventata addirittura un prodotto industriale?

JI: Questo processo è in corso fin dagli anni '60, da quando cioè l'arte ha iniziato ad utilizzare i materiali industriali, pensa all'alluminio di Getulio Alviani; alle bande in pvc e a tanti altri artisti che hanno utilizzato quei materiali, spesso innovativi, ma industriali e quindi facilmente riproducibili. Possiamo tranquillamente rileggere "L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica" di Walter Benjamin, un libro che è sempre attuale.

TG: Tornando a Fontana, quale ritieni che sia il valore dell'operazione appena compiuta da Pirelli?

JI: E' un'operazione di notevole valore storico-educativo che spero possa fare presto il giro del mondo. Per me, la storia dell'arte è forse il capitolo più nobile ed interessante della storia dell'umanità. Che cosa resterebbe nei libri di storia se non ci fosse l'arte?

TG: Le guerre, i viaggi di qualche esploratore avventuroso e poco altro.


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