sabato 3 dicembre 2016

Federico De Leonardis: Non ci servono simboli per produrre arte

"La vera opera d'arte sfugge a queste banali spiegazioni, si serve di simboli, come si serve d'altro." Federico De Leonardis

Anonimo su un muro del FOA Boccaccio di Monza

Premessa di Tony Graffio
Il percorso che stanno affrontando alcuni scultori è molto coraggioso, tra di loro troviamo gli artisti che propongono il linguaggio più svincolato dai materiali e dalle tecniche, molti prendono spunto dai vari elementi che li circondano, in modo spesso un po' destabilizzante, come abbiamo visto nella precedente pagina di questo sito, ma rifiutano ogni legame con il mondo inconscio dei simboli.
L'arte contemporanea s'è liberata da tutti gli schemi del passato: non ci sono più canoni estetici, né regole; non c'è più alcun ritegno nell'appropriarsi del lavoro altrui o nel rappresentare le brutture e le bruttezze della nostra società in questa età di decadenza. Ma esistono dei segni che sono ancora presenti all'interno dell'opera d'arte e che sono riconoscibili da tutte le culture? E perché? 
Può l'arte liberarsi dai simboli oppure utilizzarli a prescindere dal loro significato? Su questo punto, come spesso accade, mi sono trovato piuttosto in disaccordo con l'amico Federico De Leonardis, così l'ho esortato a spiegare le sue ragioni su queste pagine che già hanno ospitato più volte il suo pensiero. TG

DECLINO (Premessa di Federico De Leonardis)
Questo famoso rapporto con l'altro da sé: vox clamantis in deserto. Ci sono in giro molti Sant'Antoni blateranti, fra cui il sottoscritto; ogni tanto, tanto, salta fuori qualcuno a dirti, privatamente, ho sentito: è un momento eccezionale, corroborante, ti incoraggia a continuare.
Ma non sono tutte illusioni? Non è meglio prendere una canna e sporgersi su uno specchio d'acqua a cercare che abbocchi un pesce? Non è meglio distendersi a una partita a bigliardo o a scopone con qualche amico? Le variabili sono infinite, secondo l'indole e la storia dell'interessato e ci sono molti modi di affrontare il declino inesorabile verso quel terribile momento che decreterà forzatamente il nostro stop.
Io penso però che, accettata negli umani in età non più giovanile l'esistenza della coscienza del declino, i modi a cui ho accennato parlando di evasioni comuni siano veramente inefficaci: prima o poi dovremo affrontare il punto. Oddio, chi non si masturba qualche volta un poco? E' tanto rilassante, stende i nervi. In certi casi è addirittura consigliabile: guardi dalla finestra e vedi le solite cose che rimarranno immutate dopo te, un uccello attraversa il tuo campo visivo, la luce declina lentamente a occidente, ti raggiunge il rumore di un autobus che passa sotto. Tutto è così rassicurante, così scontato. Tra un terremoto e l'altro la vita continua coi suoi ritmi, la gente si accoppia e fa figli, la madre è soddisfatta, il bambino sorride ecc ecc. Se guardiamo il Sud il mondo gira come al solito in senso antiorario, le stelle rimangono più o meno nella stessa posizione e ogni notte fanno un piccolo passettino, troppo piccolo per registrarlo, ma il fatto, così dicono, che il prossimo anno lo stesso giorno le troveremo nella stessa posizione è rassicurante. Non possiamo farci niente, siamo assolutamente impotenti, la passività e l'impotenza ci dominano e ci acquietano. Perché darsi tanto da fare, perché trovarsi tutti i sacrosanti giorni in quel luogo tutto sommato abbastanza scomodo, freddo, sempre lo stesso, a fantasticare, spostare oggetti, spaccarsi le mani per modificarli? Pontormo aspettava sera nel suo fondo fiorentino gelato per andare a mangiare con Bronzino: era un momento di sospensione della sua terribile ossessione: l'intrico di gambe e braccia del Diluvio che i monaci bacchettoni di San Lorenzo seppellirono sotto una mano di intonaco un secolo dopo.

Pontormo

Ecco dove va a finire il nostro darsi tanto da fare. Ma questo non ci induce a smettere: non c'è, o per lo meno non l'ho io, una spiegazione all'ansia del fare, del significare, del comunicare all'altro da te, l'altra metà dell'anima come diceva Jung. E' esattamente come la questione dell'esistenza di Dio: tanti si sono arrabattati a cercarne le prove, con scarso risultato. Alla fine constatiamo che l'umanità si può dividere fra quelli che hanno la fede nella sua esistenza e quelli che non l'hanno e il fatto che io non impieghi la maiuscola nel pronome possessivo dice chiaramente a quale delle due schiere appartengo, a quella destinata all'onda bruna, diretta “alla riva dannata ch'attende ciascun uom che Dio non teme”. L'eventualità di essere spedito all'Inferno, niente popo' di meno che da Dante, non paralizza il sottoscritto. Al contrario, lui si alza tutte le mattine e diligentemente, senza ubbidire ad altro padrone che se stesso, finisce per spostarsi nella ghiacciaia di cui parlavo prima per arrabattarsi anche lui a significare, comunicare ecc ecc. Perché?
Non c'è una risposta soddisfacente e non mi interessa nemmeno cercare di darla. Forse un'indizio, un'abbozzo di spiegazione lo si può trovare per tutti, anche per quelli che sbandierano la loro fede in Dio, se si sostituisce a quest'ultimo soggetto, anzi Soggetto, uno altrettanto generico e improbabile, ma forse del quale è più concreto (non dico più facile) provare l'esistenza. Se non altro perché qualche volta salta fuori quel qualcuno che al tuo clamore risponde con il segnale di aver sentito. Quel qualcuno appartiene appunto al nuovo soggetto che, ormai tutti l'hanno indovinato, si chiama umanità. E la parola, faccio notare, va scritta rigorosamente con la minuscola, perché trattare da soggetto importante e particolare una schiera di individui da poco emancipatisi dalla loro origine perché hanno trasformato le loro braccia inferiori in gambe, è quanto meno azzardato: l'uomo di Cro-Magnon, non si sa se perché più intelligente o più crudele (ma forse per ambedue le ragioni, in quanto crudeltà e intelligenza sono nella maggioranza dei casi sinonimi), ha estinto oltre a moltissime specie diverse dalla sua anche alcune antropomorfe con le quali ha convissuto per migliaia di anni e che praticavano come lui il culto dei morti, i propri (se questa può essere una spiegazione dell'inizio della spiritualità). FDL

ARTE, SIMBOLO E MORTE
Ma perché questo lungo cappello per parlare di simboli? 
Per non essere superficiali: ora possiamo tornare a noi, all'umanità sopravvissuta. Nessuno può ignorare l'importanza anche per noi moderni di quegli strani oggetti che per i greci rimandavano a un patto condiviso (si spartiva spezzandolo un qualsiasi intero a suggello dell'accordo). La parola da cui deriva usa il prefisso sun (insieme) ed è questo a rivelare l'importanza dell'operazione. Infatti se i componenti del patto sono molti la parola che finisce per sostituire il frammento dell'oggetto acquista importanza. Ma è una parola appunto, in una lingua particolare e in un contesto o per lo meno in una civiltà particolare, cambiando la quale perde il suo significato. A volte però esistono oggetti che anche per civiltà e lingue diverse rimangono simbolici, che so per esempio una croce è un simbolo sia per la civiltà cristiana che per quella musulmana, anche se dimostra antagonismo nei confronti della prima. Josef Beuys ha usato spessissimo la croce, quella rossa della famosa compagnia che viene in aiuto dei malati e non ha attribuito alla stessa nessun significato particolare oltre al fatto di indicare l'istituzione.

Beuys

L'indicazione è importante, ma non universale, nel senso che per una tribù dell'Amazzonia non significa niente. Per essere chiari un segno può rimandare ad altro, ma non per questo è universale. La croce rossa di Beuys indica esattamente che si tratta di medicina, di cura, di salvezza fisica e se uno conosce la sua storia capisce che non rimanda a nient'altro che alla sua gratitudine per esser stato salvato durante la guerra e curato. Ma l'uso della croce in lui ha anche un altro significato. L'umanità è malata, lo è soprattutto l'umanità della sua nazione (era tedesco), malata per quanto era successo prima della catastrofe finale e malata dopo, quando lei, che credeva di imporre la sua supremazia sull'Europa, è stata addirittura divisa in due: il lamento dell'artista è in tutte le sue opere e la croce, che lui usa spessissimo, può essere considerata importante, ma solo per la nostra civiltà. L'universalità del messaggio di quel grande artista che è Beuys si rivela in altro modo che attraverso un banale richiamo a una struttura sociale, onorevole quanto si vuole, di soccorso ai malati, la Croce Rossa. Come vedremo in seguito infatti, è forse un insieme di fattori quelli che lui adotta per esternare il suo messaggio. Parlo del suo lavoro perché mi sembra particolarmente adatto ad affrontare la questione del simbolico in arte.
Bisogna però prima spiegare un poco cosa si intende per universalità. Quando vedo i giapponesi, che alla morte di un amico o di un congiunto accendono candeline davanti all'immagine del defunto e si mettono a chiacchierare su di lui, penso al culto dei morti dei poveri Neanderthal, che non hanno saputo opporre alla forza intellettuale dei Cro-Magnon qualcosa che evitasse la propria estinzione.

Mare di Federico De Leonardis

Forse l'universalità dei simboli che accompagnavano le loro inumazioni era debole, nel senso che forse il Sapiens- sapiens, è un'ipotesi, non riusciva a trovare una condivisione sufficiente con il Neanderthal: un cane che dimostra una fedeltà al padrone che nessun umano riesce a eguagliare, rimane un cane per mille altri motivi e se dobbiamo scegliere tra lui e nostro figlio non abbiamo esitazioni. I Neanderthal per il Sapiens erano, come gli ebrei per i nazisti, semplicemente degli animali, dei diversi (il lamento del tedesco Beuys, ex ufficiale della Wermacht, ci insegue).
In parole brevi la candelina dei giapponesi, una luce che si consuma lentamente durante la chiacchiera e lo scambio di cibo, è un simbolo importante non solo perché è la stessa che mettiamo (mettevamo per la verità, perché dopo migliaia di anni i preti hanno deciso di sostituirle con delle candeline elettriche, che consumano solo forza lavoro, direbbe Marx) davanti all'immaginetta del santo di turno nelle nostre chiese o ai piedi della bara del defunto, ma perché richiama la morte, che è universale. La stessa che, uccidendo un pollo, evocava Senofonte (un filosofo oltre che un capitano di ventura) per scrutare nelle sue viscere il consiglio su quale via avrebbe dovuto prendere il suo esercito (ed è riuscito, in effetti, a portarlo a rivedere il mare, Talassa in greco).

Ossa di Shelley di Federico De Leonardis

Sarà un caso questa ricorrenza della morte quando si parla di simboli? Forse il vero simbolo è solo quell'unico che evoca la morte, perché solo lei, solo la sua evidenza è universale; e la candelina che si consuma può benissimo esserlo, proprio perché a un certo punto si spegne, spegnendo il suo corpo, il feticcio che vorrebbe rappresentare. Ma questo è un discorso troppo difficile perché qualcuno possa seguirmi. Qui sono veramente in deserto.
L'arte, quella per la quale sono stato invitato a parlare di simboli, l'arte visiva, fa spesso uso di oggetti e di immagini che riassumono, sintetizzano la complessità del suo messaggio e hanno una certa più o meno estesa condivisione. Lo faceva in passato (la Melanconia di Durer, per esempio, ne è stracarica, Gli Ambasciatori di Holbein la supera per numero di rimandi), soprattutto nelle epoche di ridimensionamento della fede religiosa e di conquiste laiche. Per rimanere al secolo scorso, dopo il trionfo del Surrealismo (parlo di arte del Novecento, perché considero il Simbolismo un rimasuglio del tardo romanticismo ottocentesco), l'arte è ricorsa continuamente all'uso di simboli, profani e laici per lo più, credendo con questo di elevare il proprio messaggio a una maggiore universalità. Il fatto è che il simbolo non si possiede, non lo si può inventare, esiste ed emerge eventualmente da un'opera d'arte quasi all'insaputa del suo stesso fattore, come la memoria appunto, e non è comunque determinante. E poi è e deve rimanere involontario, non come in Magritte o in Dalì, che pescano coscientemente (questa è la contraddizione) a piene mani nella “letteratura” dei simboli (sanno di intelletto, di ricerca, nella migliore delle ipotesi di sogno, quando si sa, almeno lo sanno tutti quelli che hanno letto qualcosa di Freud, che il Traum si nutre sì di immagini, ma soprattutto di parole legate alle immagini).

Boltanski

Per approfondire ulteriormente il concetto di universalità porterò l'esempio di un lavoro di Boltanski, in cui una lampadina appesa al centro di un lungo corridoio vuoto e buio si accende, per spegnersi subito dopo al ritmo del battito del suo cuore.
La grandezza di quell'opera consiste fra l'altro nel fatto che tutti si sono soffermati almeno una volta ad ascoltare il leggero colpo che dà il proprio e questo ha rimandato subito al pensiero che un bel momento questo lieve rumore ossessivo e regolare cesserà. Perché sappiamo benissimo che tutti noi avremo una fine e che il declino, di cui parlavo all'inizio e che forse è il lento rallentamento o affievolirsi della luce della lampadina, ne è l'anticamera.
Quindi la lampadina è un simbolo? Non è importante se lo sia o meno, pensando agli Inuit o ai popoli dell'Amazzonia o agli aborigeni australiani certo non è un'immagine universale. La vera opera d'arte sfugge a queste banali spiegazioni, si serve di simboli, come si serve d'altro. Riprendiamo a guardare i lavori di Beuys: lui porta sempre con sé un bastone, spesso una coperta di feltro e un triangolo sonoro che richiama facilmente l'immagine della sbandierata Trinità, ma questa vistosa coreografia sciamanica è solo necessaria a creare un'atmosfera ancestrale, non dico dell'epoca dei Cro-Magnon e dei Neanderthal, ma molto vicina a loro: forse per curare la nostra civiltà dobbiamo tornare alla loro semplicità, allo strame su cui ci corichiamo insieme al coyote1, condividendone almeno per un poco la vita.

Beuys

Simboli gli elementi di cui si serve? Io li chiamerei piuttosto strumenti coreografici e lui stesso ne è cosciente vista la cura quasi maniacale dell'immagine stessa, della sua composizione astratta, dell'equilibrio visivo fra i pieni e i vuoti delle sue immagini. Potrei continuare all'infinito a descrivere altri suoi lavori, ma voglio convincere chi mi ha seguito fin qui della scarsa importanza del simbolico nell'arte, anzi del grande equivoco che hanno alimentato dal Surrealismo in avanti, portando altri esempi di grandissime opere d'arte. Giacometti, per esempio, a un certo punto della sua vita abbandona quel Movimento di cui faceva parte, e che gli aveva procurato un grandissimo successo, per mettersi a fare figurine magrissime, scavate, s-colpite (con la mano destra, la sinistra aggiungeva creta che la destra scavava), fantasmi minuti che ricordano i bronzetti dei nuraghe sardi, opere che ci arrivano dalla preistoria.

Giacometti

Cercava un nuovo simbolo o piuttosto aveva capito che continuando a maneggiare quelli che gli metteva a disposizione la Letteratura del Surrealismo non sarebbe arrivato da nessuna parte? Il ricordo di quelle antiche divinità giunte da lontano (sempre di fronte alla morte o per lo meno al declino, compare un Dio), ancora presenti nel suo come nel nostro foro interiore, come in quello di tutti, compresi i giapponesi cui ho accennato, forse è qualcosa di più solido, di più profondo delle invenzioni fantastiche e un po' provocatorie di un Magritte, i cui cappelli bombati sono già tramontati con la piccola borghesia del secolo ventesimo.

Magritte

Ma sono un simbolo?
Ecco che senza neanche nominarla, ha fatto la sua comparsa la radice di quell'universalità che ho scomodato prima: l'inconscio collettivo. Giacometti non ha inventato niente, non lo ha cercato. Gli è bastato frugare dentro se stesso per riportare alla luce della coscienza contemporanea una verità antica scaturita millenni fa di fronte alla coscienza della morte.
Allora l'arte è solo un esorcismo del grande momento? Gli esempi riportati sembrerebbero confermarlo. A parte il fatto che qui sono stato chiamato a disquisire sul simbolo, en passant possiamo rispondere di sì: l'arte è un'operazione di liberazione, di consolazione, di sollievo.
Ma torniamo a noi. Le sculture di Giacometti sono simboliche? Non lo sono affatto nel senso in cui lo è il bastone dello stregone messo al centro del drappo nero le cui diagonali sono riempite di teste di leopardo. L'esorcismo li accomuna, ma l'inconscio li separa. Il drappo di cui parlo, da me visto al Guggenheim di New York in una mostra di feticci africani, è un'opera d'arte? Niente affatto, è un'opera pratica, senza nessun mistero, senza nessun altro scopo che l'esorcismo della paura e la conferma di una gerarchia di comando. Nessun segno universale.

Il viandante e la sua ombra di Federico De Leonardis

Deve esser chiaro una volta per tutte che l'arte è solo un segno universale, l'Onda di Hokusai, come il Diluvio di Pontormo, come le spirali di Richard Serra sono segni universali, valgono per il Cro-Magnon di tutte le latitudini e longitudini e non rimandano a nient'altro che a se stessi.

Federico De Leonardis

Hokusai

1. Sceso dall'aereo e caricato in barella su un'ambulanza, l'artista si è fatto trasportare a sirene spiegate in una galleria di New York, dove per un mese ha condiviso lo spazio con un coyote.

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