sabato 17 ottobre 2015

I segreti della stampa al platino-palladio: intervista a Giancarlo Vaiarelli

Tony Graffio è entrato nella camera oscura di Giancarlo Vaiarelli per farsi raccontare i dettagli del suo metodo di lavoro, affinato in 23 di anni d'esperienza con il platino palladio, e capire cosa abbia portato questo esperto stampatore a prediligere la tecnica che egli considera al di sopra di tutte le altre.

Giancarlo Vaiarelli con una sua stampa al platino-palladio realizzata per il fotografo di moda Settimio Benedusi.

Tony Graffio intervista in esclusiva Giancarlo Vaiarelli

Tony Graffio: Buongiorno Giancarlo, a quello che mi risulta, tu sei tra gli ultimi stampatori al platino-palladio, puoi raccontarmi qualcosa che riguarda la tua formazione ed il tuo inizio di carriera?

Giancarlo Vaiarelli: Buongiorno, io sono Giancarlo Vaiarelli, mi occupo di una forma di stampa fotografica quasi in via d'estinzione, la platino-palladiotipia ed io sono uno dei pochi che ancora la pratica. La mia formazione, specificatamente legata a questa antica tecnica, risale alla prima metà degli anni 1980, periodo in cui mi trovavo in Inghilterra. Poi ho approfondito questo argomento negli Stati Uniti d'America perché questo genere di stampa era molto più diffuso in Nord-America piuttosto che in altre parti del mondo. Oggi, forse le cose sono un po' cambiate.

TG: Cerchiamo di conoscerti meglio, dove sei nato e quando?

GV: Sono di Roma Ostia, classe 1957, ho iniziato con il cinema facendo la comparsa quando ero molto piccolo, in un film interpretato da Aldo Fabrizi e da altri attori di quell'epoca. Ho proseguito a lavorare nell'ambiente cinematografico, poi ho fatto il fotografo di scena, poi, sono diventato fotoreporter, potremmo anche dire paparazzo.
Ero a contatto con altri fotoreporter di varie agenzie, tipo Associated Presse, France Presse e così via, quando questi fotografi mi facevano vedere le loro stampe, io lì ci vedevo qualcosa d'eccezionale perché erano veramente ben fatte, come tecnica di stampa. Si trattava di fotografie molto ricche di toni, stampe che io non riuscivo né a rendere in quel modo, né a vedere da altre parti, da altri fotografi italiani, tant'è che mi fu suggerito da un fotoreporter statunitense, d'andare a specializzarmi nella stampa in bianco e nero, in Inghilterra, più che negli USA, essendo la Gran Bretagna la patria della stampa in B/N.

TG: Scusami Giancarlo, tu venivi già da una famiglia che aveva a che fare col cinema?

GV: No, fondamentalmente no, mio padre amava la fotografia e soprattutto la cinematografia, lui si dilettava in queste forme espressive. Quand'ero piccolo ricordo che lui mi puntava addosso sempre la cinepresa, perciò una certa infarinatura credo d'averla avuta in questo senso. Da piccolino poi, alle elementari, il mio maestro mi ha insegnato ad usare il bilancino di precisione per preparare le varie chimiche. Ricordo perfettamente quando preparammo insieme il mio primo sviluppo, il famoso Kopdak D76 diviso. Ero molto giovane. A dodici anni ricevetti in regalo una Kodak Instamatic 56 che ancora conservo; da lì piano, piano s'è sviluppata questa passione. C'è stata la parentesi del cinema, come comparsa, anche se all'inizio avevo il difetto di guardare sempre in camera fino ed in un'occasione Aldo Fabrizi mi disse molto simpaticamente: <A Regazzì, hai finito di guardare in macchina? Se no te caccio via.>. A quel punto io mi gelai ed a quel punto non guardai più nell'obiettivo della macchina. Sia Fabrizi che sua sorella, la sora Lella, erano persone molto simpatiche; fu una bella esperienza e credo che da lì poi sia partito per me tutto l'interesse per l'immagine cinematografica e fotografica. L'ultimo film in cui ho lavorato che è stato: Cento giorni a Palermo di Giuseppe Ferrara, un lungometraggio del 1984.

TG: Così dal cinema sei passato alla fotografia?

GV: Sì, in quel periodo quando avevo 14, 15, 16 anni facevo l'assistente fotografo per i vari fotografi di scena e c'erano anche delle paparazzate che a dir la verità erano costruite e concordate con i diretti interessati; insomma non erano delle situazioni che si creavano così dal nulla... Noi ragazzini contribuivamo a creare delle situazioni in cui poi cascavano i vari attori ed attrici in voga in quel momento.
Quando partii per l'Inghilterra per approfondire la tecnica di stampa in camera oscura incontrai nel laboratorio dove ero andato a lavorare, premiato anche della casa reale britannica, Roberto Marcotullio un ex fotografo italiano, ex paparazzo, fu lui che all'inizio mi diede le prime basi per poter stampare in maniera corretta con la capacità di poter interpretare il lavoro del fotografo e poter realizzare stampe un po' più creative che tecniche.

TG: A che età eri andato a Londra?

GV: Avevo circa 24 anni.

TG: Da fotografo che eri, sei passato subito a fare lo stampatore?

GV: Sì, ho metaforicamente appeso la macchina al chiodo, anche se poi così non è stato. Ho continuato anche a scattare fotografie, ma poiché il processo al Platino-Palladio richiede la stampa a contatto,sono passato ad utilizzare formati più grandi, ma ovviamente ero più concentrato sulla camera oscura e camera chiara, anziché fare fotografia per me stesso, o per altre persone. Roberto e Joe Andrews sono stati molto importanti per la mia formazione; a loro devo molto perché mi hanno sempre motivato ad andare avanti e cercare di scoprire e attuare delle tecniche di stampa che per i più erano sconosciute.

Giancarlo Vaiarelli
G. Vaiarelli con in mano una fotografia al platino-palladio stampata per Garth Meyer - Little African Story, Zimbabwe 1995
Partendo da un negativo B/N è stato ricavato un internegativo su pellicola fotomeccanica ai toni continui (Agfa N31P Non più prodotta) che poi è stato stampato seguendo la formula classica della cloro palladite 50% platino/50% palladio.

TG: Hai iniziato a stampare la baritata B/N e poi sei passato al colore?

GV: No, diciamo che ho quasi solo usato la baritata in bianco e nero, il colore l'ho trattato poco, molto poco, non mi è mai interessato fare il colore. E' a metà degli anni 1980 che mi sono avvicinato alla platinotipia, una delle prime scoperte della fotografia. I primi studi di questa tecnica risalgono addirittura al 1840, o poco più avanti. Il brevetto è stato poi registrato nel 1872 da William Willis un inglese che mise in vendita anche della carta pre-trattata per questo tipo di stampa di grande qualità. I suoi brevetti vennero poi, guarda caso, acquistati da aziende americane e da lì è partito tutto. Però le formule che ci sono oggi sono ancora quelle, sono rimaste così, intatte. Qualcosa è stato migliorato perché è stata adottata un'altra tecnica di stampa, non molto differente, come per esempio l'introduzione di formule al platino in forma sodica, più che cloro. Questa formula dà alcuni vantaggi, ma non è che dalla sua introduzione il platino classico è venuto a mancare, anzi... Sono formule che comunque rimangono e rimarranno sempre, perché non c'è niente da inventare in questo campo, sono cose molto semplici, d'altronde la semplicità in fotografia è assolutamente di rigore.

TG: Per quale motivo ti sei avvicinato al platino-palladio, hai visto una stampa che ti è piaciuta, o ti è capitato di lavorarci per richiesta del cliente o del laboratorio?

GV: Il primo motivo. Avevo la curiosità di vedere ciò di cui mi avevano parlato i fotoreporter americani che avevo conosciuto a Roma. Loro mi parlavano di queste tecniche quando io credevo esistesse solo l'argento, o poco altro, come le tecniche al collodio e le carte salate; io conoscevo queste 3 o 4 cose, non pensavo ci potesse essere anche la Formula 1 della stampa fotografica, perché il platino-palladio è il punto d'arrivo delle stampa fotografica. Quelle prime nozioni avute a Roma mi hanno stimolato, una volta a Londra, ad approfondire questa conoscenza, vedendo anche determinate mostre. In una, in particolare scoprii Dick Arentz e di lì fui determinato a conoscere questa persona che divenne il mio maestro.
Mi misi in contatto con Dick nei primi anni 1990 e feci un workshop con lui negli Stati Uniti, sia in forma pubblica che privata. Posso dire che per me Dick Arentz è stato un mentore, come per lui lo è stato Phil Davis e poi Weston e Ansel Adams, visto che lui ha studiato anche con questi grandi fotografi.
Tutto per me è partito da Dick Arentz, poi sempre grazie a lui, io ho continuato a coltivare questo seme che io avevo nel mio animo, fino a farlo crescere ed ad avere la completa padronanza di questa tecnica molto particolare.
Già nel 1985, a Londra, avevo avuto un approccio con la stampa al platino, vidi che questa tecnica mi era congeniale, però mi mancavano certe nozioni che mi ero reso conto non riuscivo a capire, o a carpire allo stampatore al quale ero affiancato in quel laboratorio.

TG: Dopo aver passato circa 5 anni a Londra al Joe Basement ed in altri laboratori, che cosa hai fatto?

GV: Dopo Londra, sono venuto a Milano, ma dopo poco sono ripartito per approfondire tutte le mie conoscenze, non soltanto per la platinotipia, ma anche per la stampa ai sali d'argento ed altre tecniche. Mi sono recato a New York,ma fondamentalmente ero andato in USA per andare in Arizona da Dick Arentz, dopo di che sono stato anche in New Mexico, il mio triangolo era quello, poi tornavo qui a Milano, dove io avevo già aperto il mio laboratorio: ero sempre in movimento e spesso capitavo anche a Londra, soprattutto per vedere quali erano i nuovi materiali che venivano proposti da quelle parti, oppure che tipo di stampe venivano richieste e quali tecniche venivano proposte e da chi. Alla fine degli anni 1980 molte cose ancora non si vedevano qui in italia e nemmeno a Milano.
Non c'era una cultura tanto radicata di questa materia, tant'è che la maggior parte dei miei clienti erano poi i fotografi stranieri, mentre dai fotografi italiani ero poco conosciuto.

TG: Fammi qualche nome dei fotografi che si rivolgevano a te.

GV: Bah, ho lavorato con Albert Watson, con Doug Ordway, con Garth Meyer, Jason Baker, ho fatto delle stampe anche per Bruce Weber, ne sono capitati altri. Ho fatto un lavoro commerciale con Elliot Erwitt.


Garth Meyer - Steps


TG: Gli italiani non si rivolgevano a te?

GV: Molto poco, per loro non ero molto conosciuto, non ero del loro ambiente, però ho fatto diverse cose per Vittore Buzzi, ma ne ho fatte anche per Giovanni Gastel, ed altri, ma non ho mai avuto una certa continuità con loro, ma non ho idea del perché. Ho dato un grosso apporto a molti giovani fotografi per aitarli a crescere nella loro professione, ma anche loro hanno aiutato me a maturare come stampatore.


Da file digitale è stata ottenuta, da G. Vaiarelli, questo acetato semitrasparente di una fotografia di Gian Paolo Barbieri da stampare a contatto per ottenere una stampa al platino-palladio.

Un provino per la stampa al platino della fotografia di Gian Paolo Barbieri eseguito da G. Vaiarelli.

TG: Spiegami perché la palladio-platinotipia è il metodo migliore per stampare una fotografia.

GV: Ci sono tante forme di stampa d'altri tempi che hanno un loro pregio qualitativo, o che hanno una loro caratteristica specifica, ma le stampe realizzate col Platino-palladio hanno qualcosa in più, danno più tridimensionalità ed un effetto tattile all'occhio; lavorano sulle definizioni come null'altro, anche perché il Platino ed il Palladio, essendo materiali ferrosi, non perché non lo sia l'argento, solo che quest'ultimo ha delle molecole diverse dai metalli più nobili, riescono a dare maggior consistenza e definizione all'immagine.
Platino e palladio sono costituiti da molecole molto fini riuscendo a creare una struttura più ampia rispetto agli altri minerali ferrosi, infatti la ricchezza dei toni grigi offerta dal platino e dal palladio non è paragonabile a nessun'altra tecnica, né a nessun'altra chimica. Non c'è nessun altro sale che riesce a dipingere l'immagine come il platino o il palladio che possono essere legati l'uno con l'altro o separati, comunque hanno caratteristiche che altri processi chimici non riescono ad eguagliare. Sempre ammesso che l'immagine da stampare disponga di certe particolarità, perché diversamente è anche inutile legare questa lavorazione a dei materiali così nobili e preziosi come platino e palladio.

TG: Qual'è lo scatto più adatto ad essere poi stampato con questi materiali di cui stiamo parlando?

GV: Non c'è uno scatto vero e proprio, diciamo che da un punto di vista tecnico bisogna magari operare con certe accortezze che sono un pochino diverse da quando si va ad impressionare una stampa finale ai sali d'argento, piuttosto che ad un altro meccanismo.
Bisogna partire da un negativo ad altissima definizione per ottenere i risultati migliori che possono essere espressi da questa tecnica.


Un negativo poco contrastato di un interno di un palazzo abbandonato nel deserto della Namibia.

TG: E per quello che riguarda il contrasto?

GV: Bisogna cercare d'arrivare nei dettagli, perciò bisogna avere un micro-contrasto abbastanza accentuato, però, a questo punto il concetto viene da sé perché per produrre una stampa a contatto è ovvio che ci vuole una fotocamera di grandi dimensioni. Sarebbe meglio partire da un formato come il 4X5 pollici per andare anche oltre, anche se oggi col digitale è possibile eseguire stampe al platino palladio stampando un negativo di grandi dimensioni da stampare poi a contatto sulla carta preparata appositamente a questo scopo.

TG: Il gamma del negativo adatto alla stampa come dev'essere?

GV: Ci vuole un negativo abbastanza denso che abbia un gamma di circa 1,7 – 1,8 di gradiente, anche se la cosa più importante è che ci siano molti dettagli nel soggetto da poter essere riprodotti su negativo e, finalmente, sulla carta.
Non è necessario avere un negativo denso per poter avere la classica nebbia che è importante in una platinotipia, la cosiddetta fog, in inglese, ma è importante partire da un'immagine carica di moltissimi dettagli. Ci vuole una gamma tonale molto estesa perché il bianco, come il nero non vengono mai presi in considerazione al 100% .
Il modo più diretto per ottenere il dettaglio che cerchiamo è quello di utilizzare una fotocamera di grande formato a pellicole piane.
Non è che non si possa ottenere il dettaglio da una fotocamera più piccola, io ho lavorato a molti progetti che hanno utilizzato negativi di cm 6X7, per esempio, in alcuni casi sono partito anche dal formato 35mm, poi basta fare un passaggio in più sulla pellicola fotomeccanica, almeno un tempo si faceva così. Oggi puoi stampare un negativo di grande formato anche in maniera digitale con un plotter a getto d'inchiostro.
In questo modo il digitale ci viene in aiuto, grazie digitale perché abbiamo tagliato sui tempi e risparmiato sui costi, in questo modo. Possiamo partire da un fotogramma di un rullino 35mm, acquisirlo in digitale con uno scanner, elaborare un minimo il file con Photoshop per correggerlo un minimo, dare il comando ad una stampante sulla quale, anzi che un foglio di carta ha caricato un foglio d'acetato, inchiostrarlo e poi mettere questo negativo digitale a contatto del foglio dove è stata stesa l'emulsione sensibile che contiene platino-palladio.
Come formato finale, possiamo andare dal 13X18, fino a formati che arrivano a cm 50X60, non dico di più perché già diventa una stampa di un impegno economicamente piuttosto gravoso, perché al di là della lavorazione manuale, lasciamo e tralasciamo le esperienze e le conoscenze, ma già soltanto le materie prime sono estremamente costose, quindi a maggior ragione bisogna partire da immagini molto ben curate.

TG: A questo punto possiamo dire che ci vuole un soggetto che abbia un certo contrasto di scena per poter ottenere buoni risultati, o va bene anche un soggetto che darà origine ad un'immagine abbastanza piatta?

L'interpositivo dal quale si ricava il negativo di grande formato che serve per essere stampato a contatto.

Il negativo da stampare.

GV: Partiamo dal concetto che se un'immagine è irripetibile, unica nel suo genere, non dico che sia l'immagine della vita e allora anche se questa ha dei problemi tecnici, non è che sia instampabile, possiamo creare delle strutture di negativi e internegativi in modo da migliorare determinate caratteristiche tecniche per poter fargli trovare un suo scopo nella stampa al platino, però avere un negativo ottimale è tutta un'altra cosa.
Se per la baritata, la gradazione di contrasto della carta parte da 0 e arriva a 5, con il platino-palladio noi abbiamo una gamma d'estensione di contrasto superiore, quindi tutti i negativi potrebbero essere stampati. Non è questo il problema, la cosa veramente importante è avere la ricchezza di dettaglio sul nostro negativo da stampare a contatto.
Certo, anche senza ricchezza di dettaglio e gamma di grigi molto estesa, ma dovesse essere tra virgolette monocromatico, se il negativo fosse molto bianco con pochi contrasti, noi potremmo comunque stamparlo. Però non potrebbe dare il massimo di quello che può esprimere la platinotipia. Sarebbe un po' come avere una Formula 1 che gira a Montecarlo, sicuramente un bel contesto, ma non potrebbe mai esprimersi come lo farebbe in un circuito più veloce, come Monza, o Silverstone. Questa è la differenza.

TG: Che problemi o difficoltà può dare una stampa al palladio? Se ci sono delle controindicazioni in questa tecnica.

GV: Sì, eliminiamo le controindicazioni perché fondamentalmente non ce ne sono tante, o meglio ce ne possono essere solo quando si trasformano i chimici dallo stato solido (in polvere) allo stato liquido, lì chiaramente bisogna stare un pochino attenti, però ci sono dei
preparatori e dei distributori che ti possono dare già pronte delle liquid form.
Non è neanche pensabile per un neofita mettersi lì con un bilancino di precisione per preparare i chimici dalle polveri al liquido, pertanto questo argomento non lo tratterei., anche se lì sicuramente ci possono essere dei problemi. Altre controindicazioni in questa tecnica io non ne vedo, si tratta però di un sistema di stampa molto complesso, dove ci sono molte variabili che noi dovremmo tenere presenti quanto più possibile.
Normalmente per riuscire ad ottenere una buona stampa al platino sono necessari anni di pratica e d'esperienza. Si praticano prove su prove, fare qualche piccolo esperimento.
Storicamente, il platino-palladio è anche un procedimento abbastanza ecologico. Lo sviluppo è sì un potassio ossalato che potrebbe avere una sua pericolosità se maneggiato scorrettamente, ma fortunatamente queste sostanze sono riutilizzabili moltissime volte. Non si tratta di fare 3,4,5 stampe e poi buttar via tutto, io ho un potassio ossalato che utilizzo da 22-23 anni che rabbocco mano a mano che lo uso e che rinfresco con altro potassio ossalato, oppure aggiungendo acqua distillata. Gli altri bagni chiarificatori non sono assolutamente pesanti, alla fine sono dei carbonati, niente di nuovo, niente di così stravolgente. Tra le tante tecniche fotografiche chimiche, anche rispetto a quelle argentiche, la platinotipia è più ecologica, cosa che non era stata compresa all'epoca di quando fu brevettata la tecnica, nel 1873.
L'altro aspetto che forse può distogliere molti fotografi da questa tecnica è il fatto che per ottenere risultati di una certa qualità, bisogna dedicare molto tempo allo studio ed alla pratica di questo tipo di stampa. Ci vuole tanta passione, bisogna avere la classica luce dentro.

TG: C'è difficoltà nel reperimento delle materie prime? E' pericoloso avere a che fare con queste sostanze?

GV: In parte sì. E' vero che tutte le chimiche possono creare dei problemi, non ce n'è una che si salva, da questo aspetto, a meno che non si tratti del carbonato di sodio, è chiaro che quando le si utilizza bisogna farlo con attenzione e rispetto. Tutto qui. Ovviamente bisogna conoscere le sostanze che si usano, non è che comprando un kit al platino palladio poi riesce subito ad ottenere buoni risultati. Ma quanti bisogna comprarne, prima di fare una stampa fatta bene?

TG: Conviene rivolgersi subito allo stampatore professionista?

GV: Questa chiaramente potrebbe essere la regola numero uno, poi ognuno se vuol fare le sue prove è giusto che le faccia. Nessuno glie lo vieta. Così facendo si può scoprire la propria vena legata alla platinotipia.

TG: Attualmente, quanti stampatori al mondo utilizzano questa tecnica?

GV: Non ce ne sono tanti, ma quelli che ci sono si trovano prevalentemente negli USA.

TG: Riusciamo a quantificarli in un numero?

GV: Credo che saremo circa qualche centinaio, non di più.
I risultati si ottengono gradualmente, agli inizi, se non hai qualcuno che ti finanzia ti devi finanziare da solo ed è una materia molto. molto costosa, non è come comprare 10 fogli di carta baritata 30X40, ho sbagliato la stampa, la strappo, la rifaccio e via. Eh no, qua non è così.

TG: Ci sono stampatori che dicono che con le tecniche digitali si riescono ad ottenere risultati stupefacenti e sono molto soddisfatti di questi sistemi moderni, secondo te, nel 2015 ha ancora senso andare a ricercare il gusto, i toni del platino palladio, o ci si può arrivare vicino a questi risultati, anche con una stampa a plotter?

GV: Secondo me, possono passare ancora 1000 anni, ma la platinotipia offrirà sempre qualcosa che tutte le altre tecniche non potranno mai offrire. Per quanto riguarda il digitale? Benvenuto digitale, ma scordiamoci così d'ottenere quell'effetto tattile che può offrirci anche una banale stampa ai sali d'argento. Per non parlare della possibilità di conservazione nel tempo offerta dalla platinotipia, unica tecnica che ti permette d'avere una durata illimitata nel tempo. Una di queste stampe durerà quanto può durare la carta.
A questo punto bisogna fare molta attenzione al tipo di carta che si impiega in questo processo. La carta al cotone o quella di fibre vegetali è la carta classica da utilizzare per questi scopi.


Alcuni degli ingranditori usati da G. Vaiarelli

TG: Tu utilizzi sempre lo stesso tipo di carta, o più tipi?

GV: No, utilizzo due o tre tipi, anche perché preferisco evitare di fare troppe sperimentazioni in questo campo. Bisogna arrivare ad una certa semplicità delle cose all'interno di un processo molto complicato è meglio rendersi la vita facile.
E' inutile ricercare un'unicità attraverso la carta quando il platino-palladio è già un trattamento unico in sé e per sé.

TG: Cambiare tipo di carta significa introdurre nuove variabili?

GV: Ci possono essere delle carte che ti danno un nero più profondo e qualche accento sui dettagli, altre carte smorzano i neri e magari lavorano meglio sui bianchi, però le caratteristiche, grosso modo sono quelle, magari c'è la carta che s'asciuga un po' prima, l'altra s'asciuga un po' dopo, una è più spessa, quindi ha una grammatura più pesante, mentre quell'altra ha una grammatura più leggera, ma se le carte sono buone,le caratteristiche sono più o meno quelle.

TG: Giancarlo, potresti descrivermi questo processo di stampa nelle sue varie fasi, per cortesia?

GV: Sì, senz'altro. Consideriamo le chimiche già pronte, abbiamo due reagenti, una parte A ed una parte B, uno serve a sensibilizzare la carta, mentre l'altro crea i contrasti, i due prodotti vanno aumentati in scala, in modo da poter compensare i vari gradi di contrasto. Se abbiamo un negativo molto duro abbassiamo il contrasto, dando più A e abbassando il B. Se fosse troppo morbido invece daremmo più B e meno A. Entrambe queste parti vengono dosate a gocce, o a millilitri che siano sempre pari e mai dispari. Lo stesso discorso vale anche quando andiamo a miscelare il platino con il palladio, anche lì le due proporzioni devono essere uguali: 50% di platino, 50% di palladio. C'è anche chi conferisce alla composizione più platino o più palladio, anche questo è possibile, però per semplificare la spiegazione, partiamo da una miscela che può essere 6 gocce di A, 6 gocce di B, 6 gocce di platino, 6 gocce di palladio. Questa diciamo che è la mistura media, per una negativa media, ovvero per un negativa giusta. Non vado a spiegare il fatto di come ricavare una negativa di una certa dimensione da file digitali, pensiamo di partire già da una negati va di cm 20X25 di dimensione, quindi creata con un apparecchio a pellicola piana da 8X10 pollici. Per quelle dimensioni, ci vorranno circa 5 millilitri di stesura. L'insieme dei 4 componenti porterà a questi 5 ml. di prodotto, oppure a 4ml.
Questa è la base, il minimo necessario, per questo formato.
Si seleziona un foglio di carta per la stesura della mistura che sarà stata mescolata in un bicchierino di vetro. Si utilizzerà un pennello di ottime caratteristiche per stendere il liquido sull'area individuata per coprire il formato del negativo. La stesura va fatta nel modo più omogeneo possibile. Questa operazione può essere fatta anche sotto la luce di una lampadina al tungsteno di una potenza sufficiente a controllare tutte le operazioni in maniera comoda.

TG: 40 Watt?

GV: Anche 60 Watt, ad una certa distanza vanno più che bene. Essendo un processo che può essere fatto alla luce va benissimo anche per chi soffre la camera oscura.
Una volta steso il prodotto, il foglio andrà asciugato con un asciugacapelli. Teniamo già pronto il nostro torchietto con la nostra negativa. Una volta che il foglio di carta è asciutto, lo posizioniamo a contatto con la negativa nel torchietto, o nel bromografo. La parte emulsionata del negativo andrà a contatto con la parte emulsionata del foglio di carta.
E' importante che il contatto tra le due superfici sia perfetto dopo di che andrà posizionato il tutto sotto una fonte di luce che potrà essere o dei bulbi al mercurio, o delle lampade UV,
o avendone la possibilità, sotto il sole. Chiaramente per poter esporre alla luce del sole bisogna trovare la giornata giusta che abbia il carico sufficiente di luce ultravioletta, questo vuol dire che non ci dovranno essere nuvole. Probabilmente questa cosa è più fattibile al Sud Italia che alle nostre latitudini.
Una volta effettuata l'esposizione che generalmente ha una durata di diversi minuti, il tempo d'esposizione varia da un minimo di 4 minuti ad anche qualche ora, prendiamo il foglio e lo mettiamo in una vaschetta vuota, dove poi verseremo l'acido ossalico che viene conservato in un contenitore di pyrex perché questo, normalmente, è uno sviluppo che va scaldato intorno ai 36-37 gradi. L'acido ossalico va versato sulla stampa e tenuto lì per circa 2 minuti. Bisogna sapere che l'immagine si è già formata quando la carta è stata esposta e togliendo la carta dal torchietto si vede già l'immagine impressa sul foglio,non in maniera completa, ma visibile. Lo sviluppo serve a rifinire l'immagine. Anche quest'operazione viene fatta alla luce. Io però, durante i primi 10 secondi tengo tutto al buio.

TG: E' un tuo rituale o è necessario farlo?

GV: Mah, ci potrebbero essere dei problemi tecnici per i quali nel momento della rivelazione si potrebbe creare della nebbia sulla stampa, il cosiddetto fog, e non è una cosa tanto piacevole. Onde evitare questo problema si potrebbe creare una punta di contrasto in più, nella preparazione della stesura, quindi nella miscela dei componenti A e B, ma perché crearsi ulteriori problemi? Basta spegnere la luce 10 secondi e si sta tranquilli. Poi riaccendi la luce perché quando lo sviluppo tocca la stampa, la reazione è immediata non bisogna aspettare nient'altro.
Il passaggio successivo è la chiarificazione, non c'è bisogno di fissaggio, la componente del platino-palladio durante la fase di sviluppo ha già fatto tutto. E' il classico sale bisodico EDTA che serve a togliere i residui chimici sulla carta, niente di particolare e va fatto in tre bagni. Ci sono anche delle altre strutture, non esiste solo l'EDTA, io a volte faccio un mix di varie sostanze, per poter chiarificare al meglio le stampe e dar loro una costante stabilità nel tempo. La stampa rimane 5 minuti in ognuna di queste tre vaschette di chiarificazione, sempre con agitazione continua.

TG: Oltre a sviluppo e chiarificazione di che cosa c'è bisogno?

GV: Dopo queste fasi del trattamento c'è un lavaggio finale molto breve, 15 minuti in acqua corrente sono sufficienti. Nel caso l'acqua sia troppo dura, si potrà usare l'acqua distillata. Il lavaggio serve soltanto a liberare la carta dalle sostanze presenti nella stesura dell'emulsionamento e dell'EDTA, per togliere i residui di questi chiarificatori, tanto il tutto va poi ristabilito, utilizzando un semplicissimo bano di soda solvay, dopo il lavaggio in acqua.
La fase successiva è l'asciugatura all'aria, in cui io stendo la carta su una rete senza più toccarla. Io sono abbastanza contrario all'uso di rulli e carta assorbente, la carta lasciatela vivere, non stressate le fibre, non bisogna schiacciarle o sfibrarle. Dopo, quando la carta sarà completamente asciutta, la potrai mettere sotto una pressa per rendere il foglio quanto più piatto possibile. Ad ogni modo si tratta di carte abbastanza pesanti di almeno 240gr, usare carte più leggere non avrebbe senso.


Giancarlo Platino Palladio Vaiarelli
G. Vaiarelli ed il suo "boccione" di vetro che contiene il prezioso sviluppo al platino-palladio invecchiato di ben 23 anni.

TG: Che cosa possiamo riutilizzare di questi trattamenti?

GV: In assoluto, lo sviluppo. L'avevo già detto, ma lo rispecifico: io ho uno sviluppo che è lì da 23 anni. Lo rabbocco di volta in volta, ma lo utilizzo solo per fare determinati lavori. Quando io percepisco che c'è un progetto con un certo tipo d'immagini, io utilizzo quello sviluppo. Uno sviluppo d'annata si va a caricare di ioni per le precedenti stesure. Guardando la bottiglia dello sviluppo in controluce si può vedere come sul fondo rimane del nero. Quelli non sono altro che i resti del platino e del palladio che aiuta a ricreare il dettaglio nelle prossime stampe che verranno effettuate.

TG: Ok, ma cosa succede poi aggiungendo gocce di prodotto per rendere lo sviluppo più morbido, o più contrastato?

GV: No, è possibile creare uno sviluppo adatto a creare contrasti più o meno adatti al negativo da stampare, ma in quel modo otteniamo dei dicromati che è un discorso diverso da quello che stiamo facendo. Ciò non significa che sia impossibile ottenerli, ma che utilità avrebbe ottenere 10 diverse bottiglie con prodotti diversi da 3 litri cadauno, a seconda del contrasto da dare alle immagini? Diventerebbe un po' scomodo, sì, io posso modificare i contrasti anche con lo sviluppo, non soltanto con il prodotto A e B di cui parlavo prima, lo potrei utilizzare, ad esempio, anche non mettendo il B ed impiegando solo il dicromato in sviluppo, aumentando così la gamma di contrasto, ma secondo me questa operazione è preferibile farla in fase di stesura dell'emulsionamento sulla carta.
Usando i dicromati ci sarebbe troppo dispendio nell'utilizzo di materiali preziosi,inoltre il dicromato ha una sua pericolosità se viene inalato. Era una chimica grezza che veniva utilizzata agli albori della fotografia e che può essere utilizzato anche ai nostri giorni, ma questo fatto non ci mette al riparo da una formula che rimane pericolosa.Le formule non cambiano, rimangono quelle, noi non abbiamo inventato nulla, non è che oggi esista una formula sicura perché siamo nel mondo moderno...

TG: La tua amicizia con Dick Arentz prosegue?

GV: Certo, ci siamo visti anche lo scorso anno, proprio in questo periodo, lui era venuto in Italia per scattare delle fotografie che voleva inserire in un suo nuovo lavoro, poi lui ama molto l'Italia, anche perché ha avuto una moglie d'origine italiana.

TG: Dick però ha cambiato un po' la sua tecnica, vero? L'ha resa maggiormente digitale, perché?

GV: Il platino-palladio è sempre quello, però adesso Arentz, non utilizza più fotocamere di grande formato (12x20 inch), ma fotocamere digitali, dalle quali poi ricava dei negativi stampati su acetati per mezzo di plotter digitali. Non utilizza più la sua fotocamera di legno di formato panoramico, soprattutto perché alla sua età diventa problematico girare il mondo da solo con al seguito casse e bauli pieni di attrezzatura fotografica di grandi dimensioni, ma immaginatevi che bellezza e che profondità poteva avere una stampa a contatto da un negativo di cm 30x50...
Adesso lui utilizza una fotocamera digitale full frame, come fanno molti altri fotografi che si occupano di questa tecnica. Corregge il suo file con Photoshop, anche se, fotografi come lui, han ben poco da sistemare su uno scatto. Chi, come lui, fotografa da tanti anni e l'ha fatto con i più grandi al mondo, che cosa pensate debba mascherare con Photoshop? Nulla, onestamente, nulla. Questi fotografi la fotografia la fanno prima dello scatto.
Il file serve a sistemare le dimensioni dell'immagine da riportare sull'acetato per la stampa a contatto. Vengono toccate leggermente solo alcune curve, poi si dà l'avvio al plotter, che una volta caricato a Piezography, o con altri inchiostri, a carbone, o meno, si stampa il semitrasparente.
Arentz continua così a lavorare su formati sui 30x50cm, il tutto senza strani meccanismi.


Giancarlo Vaiarelli a fianco del suo bromografo a luce UV.

TG: Ognuno utilizza il suo bromografo?

GV: Ognuno, chiaramente, ha la sua attrezzatura, c'è chi utilizza l'UV, e chi il mercurio.
Il fatto di trovarsi in Arizona, zona in cui c'è poca umidità ed una buona insolazione, fa propendere Dick Arentz ad un utilizzo della luce naturale.
Anche le platinotipie di Irving Penn erano esposte al sole, ma non erano fatte a New York, erano fatte in Centro America, in luoghi come il Cile ed il Messico.
Non è detto che a Milano non si possa fare un'esposizione al sole, però non mi metto a farla, perché non ho quella ricchezza di luce che, per esempio, potrei avere in Aspromonte, o sulle pendici dell'Etna.

TG: Tu comunque confermi che la stampa a contatto è il miglior modo per ottenere immagini dettagliate e dai toni profondi?

GV: Non c'è altro sistema, onestamente, perché così facendo noi andiamo sul massimo del dettaglio.

TG: Però io nella tua camera oscura conto: 1,2,3,4,5 ingranditori di grande formato, o anche di più. Come mai?

GV: Sì, infatti, ce ne sono di più. Adesso ne ho qua solo 5, uno con testa multigrade, uno a condensatori, uno a luce fredda, uno completamente a colori ed uno in preparazione con la testa digitale... quindi un digi-ingranditore che sto preparando per me.
Si tratta di soluzioni da offrire alla clientela, perché adesso c'è una piccola ripresa di coloro che chiedono stampe ai sali d'argento. Prima c'era più gente che scattava in pellicola, poi anche costoro hanno partecipato all'evoluzione del digitale, mentre adesso stanno un momentino ritornando sui propri passi perché hanno visto e capito che certe cose possono essere ancora scattate su pellicola, stampandole su carte baritate, per poi arrivare anche alla platinotipia.

TG: A Milano, siete rimasti in pochi a stampare in camera oscura da pellicola?

GV: Sì siamo pochi, siamo in fase di sparizione, questa è la realtà, ma non perché la materia abbia concluso ciò che ha da dire, ma perché non c'è più chi si vuol dedicare a questo modo un po' difficile di lavorare.
Tutti, naturalmente, inseguono il progresso, grazie che c'è questo progresso, però questo vuol dire perdere determinate capacità e qualità, sia a livello umano che tecnico.
I giovani, sì sarebbero anche interessati, ma quando c'è da sporcarsi le mani, non hanno glia di farlo.

TG: Poiché tu fai stampa d'arte, volevo chiederti, anche un po' provocatoriamente, se tu ritieni che l'arte debba essere fatta manualmente, oppure se basta schiacciare un bottone, fare una fotocopia e dire che è stata realizzata un'opera d'arte?

GV: L'arte è sempre intesa come qualcosa che passa attraverso il cuore e la manualità; oggi l'evoluzione ci sta insegnando che è possibile farla anche solo con un click, ma di questa cosa sarà meglio riparlarne tra molto tempo, perché per ora, siamo ancora molto lontani da questa idea.

TG: La tecnica è importante per realizzare un'opera d'arte?

GV: Sì la tecnica è importante, ma è molto più importante l'idea. E' molto importante la partecipazione del proprio io nelle cose che lo circondano, senza dimenticare nulla, o aggiungere altro. La capacità tecnica è una componente molto importante che aiuta ad arrivare al risultato che ci siamo prefissi. Non serve fare troppa esperimenti senza sapere o capire ciò che si fa, a quel punto, è meglio lasciare perder, oppure mettersi nelle mani di chi ha le capacità tecniche.
Oggi l'offerta di molti kit chimici, io la vedo soprattutto come un'astuzia per vendere prodotti che difficilmente possono portare a risultati controllabili e ripetibili e qui sta la differenza nel riuscire ad azzeccare una stampa, o nel produrre una trentina di stampe per una mostra fotografica in cui debba essere conservato lo stesso tono e la stessa atmosfera.

TG: Arriveremo ad avere un elettrodo collegato al cervello ed a schiacciare un bottone per poter stampare direttamente su carta le nostre idee, o i nostri pensieri? Quella sarà ancora arte?

GV: Tecnicamente in quel momento saremo tutti artisti, praticamente però non si può sapere, perché questa storia è ancora nel divenire. Ma fotograficamente, cosa dobbiamo ancora inventare? Abbiamo inventato tutto, abbiamo visto tutto, siamo andati negli angoli più sperduti del mondo, quando un giorno l'uomo metterà il piede su Giove, su Venere, o su Marte, forse allora troveremo una fotografia differente. Perché è il luogo che la farà differente.

TG: Oggi però una persona come te è in grado di fare delle cose che altri non possono fare, questo significa qualcosa? O no?

GV: Certo che ha un suo significato. Dopo di me, bisognerà vedere in quanti riusciranno a tenere in vita questa pratica, secondo me dipende dalla volontà di fare qualcosa, anziché di distruggere. Alcune tecniche si sono perse nel corso degli anni, questo dipende dall'uomo e da come noi concepiamo la società in cui viviamo. Se si pensa che una cosa è inutile, va bene, ma spesso e volentieri le decisioni vengono prese da persone che nulla hanno a che vedere con questi metodi di lavoro e d'espressione.

TG: Tu mi dicevi che scegliesti la tecnica del platino-palladio per una questione di semplicità, è così? E in che cosa è semplice? Ed è ancora valida anche dopo 150 anni?

GV: Questa tecnica è valida e lo sarà ancora, anche tra altri 150 anni, non c'è da stravolgere niente, da cambiare qualcosa, o da eliminarla. Fino a quando noi potremo usare del platino e del palladio potremo a proseguire a lavorare in questo modo; quello che invece mi dà fastidio è quando questo materiale va in mano a persone che ne fanno un uso non esattamente corretto.
Non dimentichiamo che questi metalli preziosi, oltre che in gioielleria, stanno dando un grosso apporto anche alla ricerca contro il cancro, cosa che rende questi metalli ancora più nobili.

TG: Ritieni che questo fatto avrà conseguenze negative sui costi dei materiali?

GV: I metodi d'estrazione e raffinazione per usi scientifici hanno costi diversi da quelli per usi fotografici, perciò anche l'utilizzatore dovrà sostenere costi diversi.

TG: Tu hai intenzione di continuare con questo lavoro?

GV: Io non ho mai pensato d'andare in pensione, almeno, nei confronti della fotografia non ho mai pensato di smettere. Finché avrò la capacità e la salute per stare in piedi a fare quello che faccio: non è un lavoro per il quale puoi dire adesso stacco, timbro il cartellino e chi s'è visto s'è visto. In questo lavoro sei portato a pensare a quello che hai fatto 24 ore su 24 e non c'è un giorno, domenica, sabato, o altro in cui tu puoi pensare di liberarti dai tuoi pensieri. Magari puoi fare una passeggiata, non stai in camera oscura, né in camera chiara, ma stai sempre lì e pensi e pensi ed hai comunque sempre da imparare, anche se hai tanti d'anni d'esperienza sulle spalle. Quella carta aveva quel difetto, avrei potuto usarla in questo modo... Così si potrebbe migliorare un certo aspetto; oppure: quella formulazione andava un pochino più raffinata... Sono tanti i pensieri che hai costantemente in testa.
Oppure: quella mistura non era proprio perfetta per quel tipo di negativo... Domani, o dopodomani ci riproverò modificandola leggermente. Ecco, è così, ogni giorno hai da pensare e decidere qualcosa; non ci sono orari, queste idee ti arrivano così, in qualsiasi momento.

TG: Hai provato altre tecniche tradizionali, prima d'arrivare al palladio?

GV: No, ho fatto qualcosa anche col bromolio, ma anche per motivi d'ecologia e di pulizia, ho scelto il platino.

TG: Grazie Giancarlo.

GV: Grazie a te.


Chi volesse contattare Giancarlo Vaiarelli può farlo alla seguente email: platinoprints@gmail.com

Giancarlo Vaiarelli, 58 anni, Stampatore Fine Art, esperto di stampa al Platino-Palladio.

Tutti i diritti riservati. Per riprodurre testo o immagini contattare Tony Graffio

Chi volesse leggere l'intervista in lingua spagnola la può trovare in questa pagina di ORPHO

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