giovedì 30 aprile 2015

Milano si fa bella alla vigilia di Expo 2015

Sgombero preventivo per timori di contestazioni nella giornata del primo maggio a Rho Fiera.
Carabinieri in assetto anti-sommossa e cittadinanza per strada. TG

Sgombero di uno stabile in via Giovanni Ambrogio de Predis - 30 aprile 2015 ore 14,37


martedì 28 aprile 2015

Le radici d'Olivia, un reportage di Gianmarco Maraviglia

Qualche settimana fa, a Milano, casualmente, ho visto una mostra fotografica abbastanza intimista di un fotografo che ha esposto le sue immagini in un'enoteca del quartiere Isola. Sono rimasto stupito dalla qualità degli scatti, così ho voluto contattare l'autore per chiedergli un'intervista ed ho scoperto che quelle immagini sono state realizzate da un fotogiornalista abbastanza conosciuto che è il fondatore ed il direttore di un'agenzia fotografica molto attiva negli approfondimenti geopolitici degli eventi internazionali nelle situazioni di crisi, la Echo photojournalism.
Gianmarco Maraviglia ha 41 anni e si è formato come fotografo presso l'Istituto Europeo di Design, dopo un percorso un po' discontinuo in varie facoltà universitarie.
Dopo una lunga passione per la fotografia è riuscito ad occuparsi di ciò che lo interessava veramente. Olivia's roots è un suo lavoro un po' particolare che fonde il suo mondo privato con la sua visione professionale. T.G.



Transilvania, Romania. Una ragazza controlla gli animali al pascolo. Fotografia di Gianmarco Maraviglia

Tony Graffio intervista Gianmarco Maraviglia

TG- Ciao Gianmarco volevo capire meglio qual'è argomento trattato ne: Le radici di Olivia.

GM- Ciao Tony, la mostra che hai visto si chiama Olivia's roots e fa vedere delle fotografie scattate durante alcuni viaggi un po' interiorizzanti, alla ricerca dei luoghi in cui hanno vissuto i progenitori di una bambina dei nostri giorni.
Ho iniziato questo lavoro 5 anni fa e me ne sono occupato per circa 3, a momenti alterni, perché questo tipo di progetto esula dall'attività giornalistica ed editoriale. E' stato un progetto a lungo termine che ho fatto senza preoccuparmi di dovergli poi trovare una collocazione sui giornali, sapendo però che questo tipo di discorso ti permette d'avere l'autorevolezza per fare delle mostre o dei libri.
Si tratta di una storia per immagini che racconta le origini della mia prima figlia, Olivia, che
ha i nonni che sono nati e vissuti in quattro paesi diversi.

Germania, Friburgo. Cornelia e Olivia attraverso una bolla di sapone. Fotografia di Gianmarco Maraviglia

TG- Come sei arrivato alla fotografia di reportage?

GM- Ci sono arrivato attraverso un percorso abbastanza elaborato e discontinuo; dopo aver frequentato l'università, mi sono iscritto ad un corso dello IED, da lì ho iniziato a lavorare in campo fotografico facendo lavori diversi: all'inizio come “paparazzo”, poi occupandomi di fotografare le macchine. Sono passato anche attraverso la fotografia di moda e di food, per un breve periodo, mi sono dedicato ad esperienze di vario tipo, fino a quando sono stato chiamato a dirigere un'agenzia fotogiornalistica.
Per qualche anno, ho ricoperto questo importante ruolo all'interno di una società italiana, ma non facevo parte del gruppo dei fotografi di quell'agenzia di stampa.
Questa esperienza mi ha fatto capire che io stesso volevo lavorare in un'agenzia con delle caratteristiche ben precise che fossero congegnate al mio modo d'essere e che mi permettessero di effettuare un approfondimento giornalistico dei fatti trattati.
Due anni e mezzo fa, ho fondato Echo Photojournalism ed ho chiamato a collaborare con me degli amici e dei colleghi internazionali con cui avevo già avuto modo di lavorare e siamo diventati una piccola famiglia che si occupa di varie tematiche.

TG- Perché hai scelto di fare del reportage?

GM- Mah, io considero il reportage come una missione, allo stesso modo di chi sceglie di fare il medico o il prete. Io non avevo intenzione di fare nient'altro al di fuori di questa cosa, perché a tutti noi che facciamo questo lavoro piace sentirci parte di quello che succede nel mondo. Questa scelta nasce ovviamente anche da un forte desiderio di denunciare alcune situazioni perché crediamo molto nel valore etico di portare all'attenzione del pubblico certe storie che magari non sono molto conosciute. Ci piace anche aver la possibilità di viaggiare, essere al centro di quello che succede.
Sono un po' queste le mie motivazioni.

TG- Spiegami meglio queste affermazioni, ti interessa vivere nella tua epoca e nei fatti che contraddistiguono questi tempi? O vuoi essere nel pieno dell'evento per vivere totalmente l'esperienza conoscitiva di ciò che avviene?

GM- Entrambe le cose, poiché queste ragioni sono molto collegate tra loro.
Come giornalista, ovviamente, faccio dell'informazione un valore assoluto; i tempi in cui oggi vivo hanno un senso solo se conosco un po' tutto di quello che avviene nel mondo.
Io non riesco a vivere per compartimenti stagni, no? Quello che io vivo qui in Italia è influenzato da quello che sta succedendo in Siria, o in Iraq, o anche in Svezia, se dovesse succedere qualcosa in Svezia. Penso che questo faccia un po' parte del sentirsi cittadino del mondo, consapevole di quello che succede globalmente e non solo a casa tua, o nel tuo quartiere.

TG- Possiamo dire che si tratta di un interesse politico?

GM- Assolutamente, diciamo che è un interesse di tipo geo-politico.

Egitto, New Cairo. Guardie a protezione del tribunale in cui si sta tenendo il processo a Mubarak. Fotografia di Gianmarco Maraviglia

TG- Perché hai chiamato la tua agenzia Echo?

GM- La mia agenzia si chiama Echo all'inglese, ma il significato italiano è lo stesso: eco, perché crediamo che quello che accade nel mondo, i grandi avvenimenti, che possono andare dalle guerre, alle rivoluzioni, ai grandi drammi internazionali, così come gli eventi lieti, felici, o importanti per altri motivi, lascino di loro una eco e questa eco sia origine di altre storie. I miei collaboratori ed io siamo più interessati a raccontare le storie che nascono dalla eco che queste storie lasciano nel mondo, piuttosto che raccontare l'evento stesso.
L'idea è quella di non seguire la prima linea, per esempio di quando accade una guerra, perché riteniamo che si capisca poco, solo dal raccontare quello che accade negli avanposti. Noi preferiamo arrivare un po' dopo e vedere che cosa sta succedendo raccontando le storie delle persone che hanno subito l'evento, o che l'hanno vissuto in prima persona. E' un giornalismo più lento, se vuoi, rispetto a chi fa giornalismo in senso stretto, mentre noi ci prendiamo un po' più di tempo per fare l'approfondimento delle nostre storie.

Irpinia, Casalbore. Una tipica scena italiana, anziani e bambini prima di una processione. Fotografia di Gianmarco Maraviglia

TG- Secondo te, esiste anche un valore artistico delle fotografie che scatti in certe situazioni di cronaca, o d'approfondimento?

GM- Io non mi considero un artista, ma non mi piace nemmeno la parola fotogiornalista per descrivere il mio lavoro; io vorrei invertire i valori in campo perché l'etica giornalistica che mi permette di raccontare le fotografie che scatto è più importante, per me, delle mie stesse immagini, che ormai possono avere un valore relativo.
Il fotogiornalismo portato nelle gallerie è un discorso che stiamo iniziando ad affrontare perché stiamo iniziando a capire che c'è un interesse anche da parte di questo mercato che conosco poco, anche se capisco che la stessa storia la si può raccontare con un approccio visivo che può essere più adatto ad essere esposto in una galleria.
Questo fatto va benissimo, fintanto che tu non vai a compromettere l'integrità della storia che stai raccontando in quel momento. Si tratta semplicemente di raccontare una storia con un mezzo diverso, come può capitare di farlo raccontandola col video, per esempio.
Il fotogiornalismo, la fotografia d'arte ed il videoreportage sono tre approcci visivi diversi, per tre media diversi. La cosa importante non è che mezzo stai utilizzando in quel momento, ma che la storia che tu racconti rimanga la stessa.

Gianmarco Maraviglia, direttore di Echo Photojournalism al suo computer di casa

TG- Il reportage funziona se lo si esprime sulle pagine dei giornali attraverso più scatti, mentre in galleria si può presentare o vendere anche una fotografia unica di quello stesso evento? Oppure voi proponete una serie di fotografie di quella storia anche alle gallerie?

GM- Noi proponiamo una serie di fotografie visivamente coerenti tra di loro. In genere noi, per il reportage, facciamo una selezione che va dalle 25 alle 40 fotografie, sapendo benissimo che il giornale quando poi ne utilizzerà 6,7,8, ne ha già utilizzate tante.
Questo è un grosso tema, perché noi comunque torniamo da un viaggio di diverse settimane, se non di più, con 7,8, 9, diecimila fotografie di un reportage. Dobbiamo fare quindi un grosso lavoro di scelta. Prima ce ne occupiamo arrivando a selezionare un centinaio d'immagini, dopo di che si fa una selezione definitiva in agenzia di circa una cinquantina di fotografie, poi il giornale te ne pubblicherà 6,7,8, quando va bene. Diciamo, per un massimo di dieci immagini.
La galleria invece fa tutto un altro tipo di discorso, può selezionare anche solo 5 fotografie coerenti nell'ambito della stessa storia Ad una galleria puoi proporre 10 immagini molto seriali per poi venderne una ad un collezionista ed un'altra ad un altra persona, non è importante che in quel caso si capisca precisamente ciò che si raccionta, ma conta il fatto che ogni fotografia ha dietro una storia.

TG- In un reportage come si scelgono le immagini che fanno poi farte della storia? E' importante che abbiano una sequenza cronologica precisa? Devono mostrare l'ambiente nella sua totalità e nel dettaglio (vari piani della stessa situazione)? Oppure ciò che conta è il momento saliente dell'azione? Come si descrive una storia?

GM- Questa è una domanda molto impegnativa. Intanto, bisogna dire che ognuno di noi che si pone sul mercato internazionale, ad un livello abbastanza elevato, per fare un certo tipo di giornalismo, non è un semplice cronista che va sul posto a prendere delle immagini.
Tutti noi siamo degli autori con un nostro specifico linguaggio che caratterizza ognuno di noi. Le fotografia di un fotogiornalista con un suo linguaggio sono immediatamente riconoscibili.

TG- Tu mi stai parlando di linguaggio o di stile?

GM- Non so bene definire lo stile in fotiografia, per linguaggio io intendo il tuo modo di raccontare una storia che comprende perfino la storia stessa che tu decidi di raccontare.
Capita spesso che ti puoi indirizzare in un filone di storie che sono vicine al tuo tipo di sensibilità e possono essere molto simili tra loro. Oppure di storie molto diverse che però conservano un nucleo comune di un discorso che tu hai gà fatto in altre storie. Questo fatto costituisce la tua uniformità narrativa. Poi, naturalmente, ognuno ha un suo modo d'approcciare il soggetto, d'inquadrarlo, d'utilizzare le luci. Ci sono tantissimi parametri che concorrono a formare un tuo linguaggio. Anche il tempo concorre a formare il tuo linguaggio, perché il linguaggio si forma, a volte, per degli errori che puoi aver fatto, ma che emotivamente ti piacciono, o ti possono andare bene.

TG- Chi sceglie le storie? Lo fa il fotografo? O l'agenzia? Si cerca un autore che possa essere più adatto alla storia? Come si procede?

GM- Generalmente la storia è scelta dal fotografo, poi ovviamente, se ne parla in agenzia.
Le agenzie contemporanee, come la nostra, sono diverse da quelle di un tempo. Le agenzie di 25 anni fa che avevano la capacità di produrre le storie e pagarle non esistono più. L'agenzia oggi serve a tante altre cose, serve anche a fare gruppo, avere un confronto interno, una linea editoriale, una diffusione del lavoro poi a livello commerciale, ma non certo a produrre una storia. Ogni fotografo si paga la produzione della propria storia ed è abbastanza normale che sia lui ad anticipare costi e spese per effettuare il servizio.
Noi siamo un'agenzia abbastanza particolare, siamo quasi un collettivo, ma è l'agenzia che ha un confronto col fotogiornalista che propone una storia. Spesso sono io a decidere l'interesse, o meno, che pensiamo possa avere il mondo editoriale per quella storia; quindi io ti posso dire: guarda, secondo me, questa storia qua è meglio se non la facciamo perché non funziona, non interessa, non riusciamo poi a venderla.

Transilvania, Bica. Benedizione ortodossa di Olivia. Fotografia di Gianmarco Maraviglia

TG- Può capitare di non riuscire a rientrare con le spese?

GM- Può succedere, però, per fortuna, lavoriamo in un mercato abbastanza globale, sicuramente il mercato italiano non è il nostro mercato di riferimento. Noi vendiamo non tantissimo in Italia, vendiamo molto, molto di più all'estero. Estero vuol dire tanti paesi per cui noi riusciamo a vendere la stessa storia in più di un paese e quando tu la vendi in 2 o 3 paesi, ovviamente rientri bene.

TG- Vi capita d'essere gli unici reporter presenti in un determinato posto? O potete trovarvi a lavorare tra altri reporter provenienti da altre zone del mondo?

GM- Noi, non facendo attualità, magari andiamo a raccontare delle storie che abbiamo trovato leggendo un trafiletto di un giornale del Pakistan o del Nagorno Karabakh.
E' difficile che qualcuno vada sulla stessa storia, però è anche ovvio che noi cerchiamo di raccontare delle storie che abbiano qualche colleganento con l'attualità, perché quello che cercano i giornali è esattamente questo: un retroscena di qualcosa che è già sulle pagine dei giornali.

TG- Le storie tornano anche ad essere d'attualità...

GM- Sì, le storie tornano d'attualità a seconda degli eventi, infatti noi proponiamo spesso delle nostre storie già realizzate un anno prima, due anni prima, anche su tematiche che per vari motivi sono tornate attuali.

TG- Tornando al reportage di carattere familiare che ci fa vedere Olivia e le zone del mondo da cui arrivano i suoi nonni, dove sono state riprese quelle fotografie? E cosa volevi dirci in quel modo?

GM- Le fotografie sono state scattate in Italia, Egitto, Romania e Germania, paesi in cui sono nati i nonni d'Olivia. Con questo lavoro, ho voluto far capire che io sono favorevole ad ogni tipo di contaminazione culturale, linguistico e di dialogo. Più i popoli si mischiano, più si ottengono esperienze interessanti. Mia figlia ha sei anni, ha viaggiato tantissimo, parla due lingue, sta imparando la terza, si trova a suo agio in qualsiasi parte del mondo tu la metta, queste sono cose che per me contano molto.

TG- Questo lavoro andrà ancora avanti nel tempo?

GM- No, non penso, è stato molto difficile dire: è finito. Essendo un lavoro sulla mia famiglia avrei potuto andare avanti all'infinito. Non ho mai nemmeno proposto questo lavoro a livello editoriale, ne ho fatto delle mostre ed ho partecipato a dei festival di fotogiornalismo, ma è un po' difficile che qualcuno lo voglia utilizzare per raccontare una storia. Adesso sto per inaugurare una nuova mostra di cui vi parlerò presto.

Gianmarco Maraviglia, fotogiornalista, 41 anni



domenica 26 aprile 2015

L'Antidesign di Federico de Leonardis

Antidesign: la parola non esiste sul vocabolario; l'ho coniata per designare (non è un jeu de mots) quegli oggetti d'uso da me costruiti in occasione della necessità di arredare casa mia o case di conoscenti e amici, per ragioni economiche e soprattutto di piacere creativo. Mi sono costruito librerie, tavoli da pranzo e da salotto, poltroncine, lampade ed altri elementi d'arredo. Qui, vi presento un paio di progetti facili da realizzare, occorre solo qualche ora di lavoro, degli attrezzi ed un po' di buona volontà.


Antidesign Federico De Leonardis
Libra (1973) Libreria in legno o cartone

Costituita da assi di legno usate, di varia provenienza: da ponteggio, di imballaggio, traversine ferroviarie sezionate, oppure di legno pregiato o legno verniciato. E' allo studio (2004) un prototipo costituito da cartone ondulato assemblato con fori di 7 cm di diametro, in due punti precisi, proporzionalmente alla lunghezza, in modo da far passare due pali Innocenti pressati fra soffitto e pavimento, bucati, per l’intersezione delle spine di sostegno delle assi stesse.

La sua caratteristica è il montaggio rapidissimo senza chiodi e l’adattabilità a qualsiasi dimensione verticale e orizzontale.


Ma perché anti? Si tratta di una dicitura tanto radicale quanto grossolana: il fatto di sentire in modo particolarmente acuto la contraddizione insita nell'impiego del lavoro altrui mi porta a cercare di ridurre al massimo, nella costruzione di qualsiasi oggetto e quindi anche dell’oggetto d’uso, l’impiego di tecnologie sofisticate; e questo sia direttamente che indirettamente. Un esempio di macchine sofisticate di impiego diretto: il pantografo a tre o addirittura cinque assi; uno di impiego indiretto: l’uso di viti al posto di spine. Dal chiodo che usiamo da sempre per legare due pezzi di legno allo strumento che ci serve per lavorarli noi siamo obbligati a servirci del lavoro altrui, ma mentre questo trovava una sua ragion d’essere nelle organizzazioni sociali antiche e in un certo senso più semplici, in quella contemporanea, nella quale la divisione del lavoro ha creato miliardi di alienati, ridurre al massimo possibile la contraddizione è una finalità da perseguire. Il come è pregno di incognite e qualsiasi soluzione facilmente criticabile: il lavoro per costruire una seggiola, per esempio, non è solo quello contenuto nella vite o nella piallatrice a controllo numerico, dietro alle quali sorge l'ombra degli schiavi del lavoro, ma anche quello del falegname che deve assemblare i pezzi, anche quello del “designer” che lo deve programmare ecc. Non è possibile risolvere con una formula tutte le contraddizioni insite nell'operazione di design; io non ho di queste pretese; ma una tendenza, un'indicazione di tendenza alla resistenza all'alienazione determinata dalla parossistica divisione del lavoro è possibile.

Schemi di montaggio di Libra in 4 fasi




L’arte, quella delle gallerie e dei musei, quella alla quale consentiamo tutto perché non ha legami con l’uso, insegna il massimo di libertà nell'impiego dei suoi mezzi, anche se sarebbe bene che l’artista avesse coscienza del suo “potere”, non solo intellettuale.
Come operatore nel vasto campo delle arti visive in genere (dall'architettura alla grafica, per intenderci) nel lavoro di design non posso non tener conto che esso, anche il più nobile e innovativo, quale per esempio quello prodotto dal Bauhaus nei primi decenni del secolo scorso, sviluppa al massimo livello la contraddizione di cui ho parlato finora e per la quale la nostra società mostra troppa indifferenza. Ecco quindi giustificato, spero, l’uso dell’anti e introdotti i passi successivi, operati da me per evidenziare quella contraddizione senza tradire la funzione essenziale che gli oggetti di design sono chiamati ad assolvere, la durevolezza ed il comfort.

Ballerina (1976) Tavolo da pranzo o da studio in vetro e ferro


Di semplicissima costruzione con scarti delle fabbriche di tubi e di lamiere più o meno goffrate. Il vetro del tavolo garantisce la trasparenza della struttura, impreziosisce la rozzezza della base di ferro trattato e alleggerisce l'insieme.


Schema di fabbricazione di Ballerina

Dimensioni a piacere, altezza da terra circa 75 cm

Dati tecnici e costruttivi di Ballerina

La superficie orizzontale è realizzata in vetro, di spessore superiore a 12 mm e con gli spigoli arrotondati; le gambe, in ferro, sono ricavate da tubi tagliati nel senso della lunghezza, con la fiamma ossidrica (taglio slabbrato), e opportunamente trattate, in modo da evitare l'idrossidazione. L’elemento in vetro risulta semplicemente appoggiato (feltri o gommini ne eviteranno la rottura e gli sfregamenti) e il tavolo è facilmente dislocabile nella stanza. Le gambe del tavolo sono state realizzate da tubi di diverse dimensioni (diametri mai inferiori ai 40 cm e spessore circa 8 decimi di mm) o anche semplicemente da lastre di ferro incrociate. La colorazione delle gambe va dal ferro brunito al terra di Siena bruciato, in dipendenza dello stato di ossidazione subìto dal tubo prima del suo trattamento. Il trattamento del tubo, non ancora tagliato alla fiamma ossidrica, avviene nelle officine di trattamento dell'acciaio, senza alcuna aggiunta di componenti, tramite il riscaldamento in forno, a circa 500 gradi, e successiva ossidazione per semplice estrazione all'aria. La pratica di far precedere il trattamento al taglio è necessaria, per evitare le deformazioni del tubo, facili a quelle temperature. Il taglio alla fiamma ossidrica deve essere fatto a mano, per introdurre la componente manuale nel processo: questo non altera le caratteristiche di ossidazione del pezzo e aggiunge una colorazione scura al taglio slabbrato.

Di seguito, i 4 punti che portano all'antidesign:

1) Materiali. Impiego di materiale di scarto di lavorazioni più complesse. 
2) Manualità. Uso di una manualità semplice e senza, o col minor possibile, contenuto di talento costruttivo. 
3) Variabilità. Il prodotto non è mai ripetibile se non nell'idea che lo ha generato.
4) Forma. Soggetta all'operare altrui più che un'imposizione estetica (sic. anche l'estetica ha il suo terribile potere!).

Chiunque ha accesso a costo zero a un’infinità di prodotti di scarto o d’uso elementare di altre lavorazioni. Il talento costruttivo è la chiave dell’alienazione del fruitore dell’oggetto d’uso: chi lo può fare, ha le macchine e soprattutto l’abilità costruttiva necessaria, io no. Il potere del talento non è meno impostore di quello del denaro, ma cercare di ridurre al minimo il talento necessario a creare un'opera è una finalità lecita e a volte realizzabile, non un dogma. 
La variabilità è insita nell'idea costruttiva e la personalizzazione dell'oggetto vanno di pari passo con l’adattabilità alle esigenze personali di ciascun fruitore e all'estro di ciascun costruttore: io costruisco la mia libreria con le mie assi, copiando semplicemente l’idea.
Nell'Antidesign non esiste il copyright.
E’ evidente il valore di rottura costruttiva dell’idea, del resto nella tradizione più antica del grande artigianato italiano del quale la piccola industria del nostro paese è altamente tributaria. Un'ultima notizia: Gli "Antidesign" sono "sottoprodotti" del mio operare nel campo delle arti visive; sotto non nel senso di minore, ma in quello di derivati, quindi non per questo meno importanti. Federico de Leonardis

Nota costruttiva di Libra
Sono state realizzate molte varietà di Libra e ciò in dipendenza dal tipo di legno scelto e dalla sua dimensione, sia in larghezza che in altezza. Il montaggio può essere effettuato con facilità dal cliente, che però dovrà fornire all'artigiano le dimensioni precise sia in larghezza che in altezza. I buchi sulle assi saranno sempre e solo due fino alla dimensione massima delle assi di 300 cm. Oltre questa dimensione possono essere previsti tre buchi ad asse (e naturalmente tre pali Innocenti). Lo spessore delle assi potrà variare tra 3 e 4 cm in funzione della dimensione. Sono previsti anche spessori superiori per grandi dimensioni, ma mai inferiori a 2 cm per lunghezze minori di 200 cm.
Attenzione: a parità di carico (distribuito) la freccia all'estremità delle mensole è esattamente uguale a quella al centro della trave appoggiata. Questo fatto dà la misura dei fori e (dico io) la bellezza della libreria.

Pubblicazioni
Pocko Gallery, Milano (Libra)
Show case, Oggetti d’uso e d’incanto (Ballerina)

Esposizioni
Cantieri Mapo, Milano (Libra)
Centro Domus, Milano; Fiera di Firenze; Fiera di Bologna; Villa Shelley, Lerici (Ballerina)


Progetti, testi, fotografie e disegni di Federico de Leonardis


sabato 25 aprile 2015

Aldo Giassi: il 25 aprile del 1945 ero a Milano con le armi in pugno

Aldo Giassi, partigiano, nato a Udine il 2 gennaio del 1925, ricorda i giorni della resistenza e della liberazione dal nazi-fascismo.

Aldo Giassi, partigiano comunista, 90 anni  "Non riesco ad identificarmi in questa Italia del 2015"
Aldo Giassi, partigiano comunista, 90 anni
"Non riesco ad identificarmi in questa Italia del 2015"

L'obbligo morale per ogni uomo degno di questo nome è quello di raccontare il vero.
Per sapere cosa è accaduto durante i giorni della resistenza ho parlato con un uomo che ha vissuto quel periodo sulla propria pelle e porta con sé, in maniera indelebile, il ricordo di quei fatti.

Pur essendoci state fin da prima delle forme di contestazione contro il regime fascista, la resistenza in Italia nacque con l'8 settembre del 1943, quando, avvenuto il proclama dell'armistizio di Pietro Badoglio i soldati italiani si trovarono nelle condizioni di doversi schierare a favore, o contro il fascismo.

Molti dei primi partigiani furono proprio i militari che non potevano ritornare a casa.
Per Aldo Giassi la situazione fu un po' più complicata poiché egli aveva già dato prova di avere le idee chiare fin da qualche mese prima, quando, per aver aderito ad uno sciopero nella fabbrica di Taliedo, dell'industria bellica Caproni, fu imprigionato per 6 mesi. In questo periodo, a San Vittore, conobbe sia Mike Bongiorno che si trovava nel suo stesso raggio. Ancora oggi si ricorda anche di Franz, un nazista che si muoveva nel carcere accompagnato da un cane lupo.

Giuseppe Giassi, aveva 4 figli e faceva il ferroviere, portò la famiglia a Milano nel 1938, dove abitarono in via Gaspare Aselli. Aldo nel 1943 aveva 18 anni e lavorava come aggiustatore meccanico di aeroplani da guerra. 

La fabbrica Caproni non subì mai gravi bombardamenti, sia perché si trovava un po' fuori dalla città, sia perché all'epoca i bersagli da bombardare, come si capì per quello che accadde alla scuola di Gorla, erano molto approssimativi. 
Alcuni capannoni della Caproni, ai nostri giorni, sono utilizzati come studi televisivi e si trovano in via Mecenate.

Aldo, uscito di prigione, fu portato presso la caserma di Corso Italia, dove venne arruolato nella FLAK, l'artiglieria antiaerea della Repubblica Sociale d'Italia.

Durante un trasferimento da Arezzo a Lucca, Aldo riuscì a disertare per dirigersi a Pavullo nel Frignano, dove avrà i primi contatti con le forze partigiane. Da lì andò a Montefiorino e dopo 15 giorni si spostò nuovamente per raggiungere Varzi ed il Passo del Brallo, dove c'era un forte nucleo di partigiani che poi furono coloro che libereranno la città di Milano.

Bracciale col tricolore scolorito del C.L.N.  che Aldo Giassi indossava all'epoca della lotta armata.
Bracciale col tricolore scolorito del C.L.N.  che Aldo Giassi indossava all'epoca della lotta armata.

I partigiani venivano ospitati al Brallo nelle povere case dei contadini che davano loro da mangiare e da dormire, ma che quando venivano scoperti, venivano uccisi e lo loro case venivano date alle fiamme.
Molti contadini furono uccisi e molte donne stuprate dai temibili mongoli, una squadra di circa 50-60 soldati catturati sul fronte russo che avevano deciso d'aderire al nazismo.
Milan, questo era il nome di battaglia del milanese Aldo Giassi, combatté contro i nazisti a Pietragavina, Brallo, Montepenice e Varzi. Fu qui che conobbe Tino Casali, combattente che ricoprì poi il ruolo di presidente dell'ANPI.
Aldo ricorda che per rappresaglia i nazisti bruciarono l'Albergo Appenninico Pavese di Varzi che ospitava molti partigiani. Gran parte di Varzi e di case nei dintorni furono anch'esse bruciate.
Aldo venne fatto prigioniero dalle parti del Brallo, nel settembre del 1944, proprio dai mongoli che fortunatamente lo trovarono privo d'armi, altrimenti lo avrebbero ucciso.
Aldo poi venne imprigionato a Pavia e poi a Milano. Da Milano venne trasferito a Innsbruck con il rischio d'essere poi deportato nei campi di sterminio.
Le sue sorti furono fortunate, in quanto un austriaco lo aiutò a fuggire, così che poi Aldo tornò a Milano ed il 25 aprile, imbracciando un fucile sparava agli ultimi cecchini in viale Regina Giovanna. Quello stesso giorno, le prime brigate partigiane arrivarono in viale Romagna, alla Casa dello Studente dall'Oltrepo Pavese.
Aldo Giassi riconosce che i contadini di quelle zone ebbero un ruolo importantissimo e se non fosse stato per il loro aiuto, i partigiani non avrebbero potuto liberare in Norditalia.

Riconoscimento delle truppe Alleate firmato dal generale Harold Alexander che certifica il ruolo di combattente di Aldo Giassi che prese parte dapprima nella 51a Brigata Garibaldina Cappettini 3a Divisione Aliotta, distaccamento Albertazzi. Poi nella 117a Brigata Partigiana.

L'Italia del 2015 ad Aldo non piace perché c'è troppo egoismo, gente cattiva ed indifferenza. 



martedì 21 aprile 2015

Fabio Castelli ideatore e direttore della MIA Fair confida a Tony Graffio le sue passioni artistiche

L'ideatore della Milan Image Art Fair, Fabio Castelli, è un uomo che, andando contro ogni aspettativa, in un momento economicamente poco propizio, sta riscuotendo con la sua manifestazione fieristica un buon risultato. Sia a livello di partecipazione degli addetti ai lavori che di pubblico. In molti non sono riusciti a spiegarsi il successo della sua formula espositiva e le motivazioni che l'hanno spinto a spostare gli interessi delle sue attività imprenditoriali verso il mondo del collezionismo fotografico. Ho ritenuto importante scambiare quattro chiacchiere con lui e porre al dottor Fabio Castelli delle domande mirate a comprendere meglio la sua storia.

Tony Graffio intervista Fabio Castelli

TG: Dottor Castelli, mi vuol raccontare come inizia la sua storia di collezionista?

Fabio Castelli: La mia storia di collezionista inizia da molto lontano e con delle evoluzioni molto precise che fanno parte della storia della mia vita.
La mia passione per l'arte, in generale, nasce quando io avevo 20 anni ed è stata sempre parallela ad ogni attività in cui io sono stato imprenditore. L'arte per me è stata sempre molto importante e mi ha supportato dandomi l'energia anche per tutte le altre attività lavorative.
Ho avuto la fortuna, se vogliamo, dal 2000 in poi di fare una seconda vita, perché prima, come dicevo, facevo altre cose.

TG: Di cosa s'occupava esattamente?

Fabio Castelli: Avevo un'attività nel campo della siderurgia speciale e nel campo dell'informatica. Avevo delle aziende e svolgevo un'attività imprenditoriale. Con questa esperienza, insieme alla mia passione per la fotografia, oltre che a una certa conoscenza dell'argomento trattato, per il quale mi tenevo sempre aggiornato, sono riuscito a mettere in piedi questa cosa che ha visitato anche lei in questi giorni. 
La Fiera MIA è nata 5 anni fa, in un momento di crisi in cui, se avessi dovuto scegliere a tavolino, sarebbe stata un'impresa molto improbabile. Penso che tutte le leggi della logica mi avrebbero impedito d'affrontare un'iniziativa così, come quella alla quale poi ho dato vita che poi è andata molto bene. Cosa che capita di solito quando ci si butta di slancio, di cuore con passione, senza pensarci ed alla fine sono andato molto bene.

TG: Io vorrei capire meglio come s'è conclusa la sua precedente attività industriale, ci sono stati dei problemi?

Fabio Castelli: No, è andato tutto benissimo, alla fine ho venduto ad un grosso gruppo imprenditoriale francese ed ho fatto il consigliere delegato per quell'azienda. Ho messo insieme il mio gruppo di aziende italiane con questo gruppo francese, in Italia.

TG: Quindi poi si è stancato di quell'ambiente?

Fabio Castelli: No, no, non mi sono stancato, sono accadute delle serie di cose e dopo quel tipo d'attività, anche perché ho avuto un problema con un'azienda che ho dismesso, ho deciso di cambiare completamente atteggiamento nei confronti della vita che mi aveva dato già molte cose. Ho deciso di seguire la mia passione che è stata questa, pur se era partita con una serie di cose diverse. Avevo aperto anche una galleria d'arte che si chiamava: " Fotografia italiana" che avevo impostato con una persona che si chiama Nicoletta Rusconi. Lei si occupava delle questioni commerciali, mentre io curavo la direzione artistica. Quando Nicoletta ha voluto ampliare i suoi interessi andando oltre la fotografia ed occupandosi anche di arte contemporanea, i nostri percorsi si sono divisi, com'era giusto che fosse. Con il massimo accordo. Dopo circa 5-6 anni, ho intrapreso l'attività di MIA che è iniziata, nella sua prima edizione, nel 2011.

TG: Lei era collezionista anche di altre forme d'arte?

Fabio Castelli: Sì, il mio interesse per l'arte s'intreccia in diverse collezioni, a vent'anni ho iniziato con l'arte contemporanea d'allora, di artisti giovanissimi che costavano molto poco, poi ho continuato con l'arte contemporanea.

TG: Può farmi qualche nome di artisti da lei collezionati?

Fabio Castelli: Sì, sì, ho un ricordo preciso di Pino Tamburello perché una notte tornavo a casa e lui si trovava con la sua macchina piena di quadri parcheggiata davanti al mio portone. Erano circa le due di notte gli chiesi se voleva una mano a scaricare la macchina, poi abbiamo parlato, mi ha offerto un bicchiere di vino, ho visto i suoi lavori e mi sono piaciuti. Il giorno dopo avevo preso lo stipendio, sono tornato da lui ed ho comprato la mia prima opera. Da lì è nata la passione ed ho iniziato a collezionare altre cose. 
Poi studiando, andando nei musei, seguendo le aste, ho affinato il mio gusto.
In quel periodo c'era Crippa, Dovera, Matta, poi volevo delle opere ancora più importanti, ma non avevo finanze per entrare in quel mondo lì, pur restando alla ricerca della grande qualità.
Allora ho cambiato supporto, son passato alla grafica e mi son permesso il massimo assoluto delle opere di questo tipo. Purtroppo la grafica non è mai stata capita in Italia, ma è un ottimo mezzo espressivo, anche se devo dire che qui la grafica è sempre stata vista come l'ancella delle altre forme d'arte.

TG: Non la si apprezzava perché era disegnata su carta?

Fabio Castelli: In parte sì, ma forse perché era considerata un sotto-prodotto e gli artisti stessi la consideravano così. A parte qualche illuminato, tipo Morandi, di cui avevo acquistato ovviamente delle cose bellissime, perché costavano le cinquantamila lire o le centomila lire d'allora ed erano il massimo della qualità della grafica d'allora.
Viviani era un altro grande grafico; Guttuso, Cascella, facevano della grafica un sotto-prodotto artistico. Ciò nonostante io ho fatto una collezione importante di grafica, dagli incunaboli in poi, perché per me l'arte è sempre stato un modo per conoscere e per accrescere la mia esperienza di vita.

TG: Perché gli incunaboli?

Fabio Castelli: Perché ho sentito il bisogno d'andare agli inizi della storia dell'arte ed agli inizi della storia della stampa. E quindi dei grandi: Dürer, Rembrandt, Schongauer, fino ai contemporanei.
Questo tipo di percorso è stato per me importante perché è stato fortemente formativo, dal punto di vista culturale. 
Nel campo della grafica, cercavo il meglio di come l'autore s'era cimentato nei vari tipi di tecniche e di supporto.
Per esempio, l'espressionista tedesco ha comunicato la sua arte in modo straordinario attraverso la xilografia. Quel segno grosso sul legno era molto coerente al suo linguaggio.
La xilografia m'ha attratto e ho voluto indagare anche nel campo della xilografia giapponese scoprendo un altro mondo meraviglioso, quello dell'Ukiyo e, un periodo storico straordinario che ha dato modo di creare i capolavori di Hokusai, Utamara, Sharaku e altri. Da lì, mi sono collegato al mondo del Liberty perché il Déco prendeva dal gusto giapponese. Mi sono interessato ai vetri francesi come i Gallé ed alle altre produzioni di quel periodo. Contemporaneamente, rimanendo nel mondo giapponese m'interessavo alle lacche, poi, facendo arti marziali, mi piacevano le katane, le else delle katane e tutto quello che aveva a che fare con quel modo d'esprimersi attraverso l'arte applicata.
Arrivato alla scuola di Barbizon, Corot eccetera, una delle tecniche da loro più utilizzate era il cliché verre, una lastra di vetro annerita con il nero fumo, su cui l'artista disegnando, toglieva il nero fumo, o l'inchiostro, per mettere questa lastra di vetro su carta fotosensibile e ottenere una stampa di linee nere su carta fotografica.
L'uso del segno grafico con la carta sensibile era per me il primo approccio alla fotografia.
Da lì sono ripartito, come dagli incunaboli ed ho iniziato a raccogliere daguerrotipi, talbotipi eccetera, fino al contemporaneo.

Intervista a Fabio Castelli
Un ritratto di Fabio Castelli estrapolato da un frame della JVC Picsio GM FN1 durante la registrazione dell'intervista. Elaborazione dell'immagine in post produzione con PS

TG: Chi è veramente un collezionista? Un appassionato, o uno speculatore? E nel suo caso?

Fabio Castelli: Il ruolo del collezionista dovrebbe essere salvifico perché dovrebbe mantenere unita una collezione e anche manutenere le opere per passarle poi ai posteri.
Dalla mia passione per l'arte è nata la MIA Fair, certamente, tenendo di conto un discorso economico; ma lei sa spiegarmi come si potrebbe tenere in piedi una manifestazione di questo genere, se non fossi appunto attento all'economia? Non da speculatore, ma per farla vivere. Non sono un mecenate che può permettersi di regalare, mi interessa dare vita a qualcosa che sia culturalmente valido ed importante. Per la città e per la gente. Devo trovare delle risorse per permettere al pubblico d'imparare delle cose, di divertirsi.
Questo fatto d'essere sempre aggredito su questi argomenti, con questa forma ti dà motivo d'essere sfuggente perché soffri, perché ti trovi di fronte a dei pareri che sono talmente lontani dai tuoi sentimenti che ti dispiace molto. Ha capito?

TG: Ho capito.

Fabio Castelli: Questa è la logica, perché quando si riesce a parlare, normalmente si riesce a far capire come si è. Ma è talmente raro ed il rischio che si corre è talmente elevato che ci si sottrae.

TG: Infatti, è per quello che ho preferito chiedere al diretto interessato ciò che pensa di certe cose e qual'è la sua vera storia. Mi rendo conto che non è il caso di parlare per sentito dire...

Fabio Castelli: Purtroppo, può esistere anche della gelosia da parte di altri collezionisti che riportano cose non vere, magari inventandosi che qualcuno per fare certe operazioni abbia dovuto vendere tutto, quando in realtà non è così.
Se io ho venduto delle cose, perché effettivamente avevo un'azienda che non andava bene è stato per pagare tutti, fino all'ultimo centesimo e non lasciare debiti. Prendendo anche delle cose che avevo da tempo e sacrificandole con grande fatica.
Mi dispiace per i detrattori, io oggi il discorso del possesso l'ho superato totalmente, se vuole ne possiamo parlare, anche dal punto di vista filosofico, è un argomento interessante, cosa vuol dire possedere?
E' un po' come una donna, uno crede di poterla possedere?

TG: Sì, vero, vorrei capire anche un'altra cosa. Per lei, la tecnica che importanza ha nell'arte?

Fabio Castelli: (Pausa) Molto poca, nel senso che la cosa più importante è il risultato, per cui, se parliamo di fotografia, dove c'è la gente che inizia a chiederti che obiettivo hai usato e cose così, io so che anche col telefonino si possono fare delle opere d'arte straordinarie, quindi il problema sta nella testa.
La ragione per cui qui c'è anche Nikon che è il mio sponsor è che io m'invento per ogni azienda il motivo per il quale deve venire qui a darmi dei quattrini.
Io devo organizzare qualcosa che serva per la loro comunicazione. A Nikon ho detto:" piantatela di fare workshop sulla tecnica, fate qualcosa che spieghi come bisogna pensare. Sulla progettualità, non tanto da una macchina da 16 milioni di pixel a una di 20, non cambia nulla, non è quello il punto. Il punto è come tu t'approcci. E piantala di fare la fotografia dell'ombra, del riflesso, della mamma, o del tramonto. La macchina fotografica serve per portare avanti dei contenuti importanti sul profilo esistenziale che servono a te e servono agli altri."

TG: Andando un po' più nello specifico della fiera invece, so che parecchi galleristi si sono lamentati del fatto di poter portare qui un solo autore per stand. Potrebbe spiegarmi questa scelta?

Fabio Castelli: Lei si riferisce al one man show. Perché ho fatto questo? 
Adesso è molto difficile trovare espositori perché i galleristi che vengono qua con un solo autore sono pochi, io però volevo alzare qualitativamente il livello dell'esposizione e dare al pubblico la possibilità di capire un autore. E un autore lo capisci se vedi 10 o 12 sue opere, non una sola. Se vedi una sola immagine per autore, la fiera diventa un "mercatone".
Tutti gli anni è stato così e per ogni stand ho fatto un catalogo; adesso invece ci sono cose diverse (mi mostra le cartoline multimediali). Non stampiamo più un catalogo cartaceo, ma proponiamo un certo numero di cartoline che si collegano ad un sito e si scaricano 8 pagine di catalogo, portando con sé a casa soltanto una cartolina come pro-memoria di ciò che s'è visto in fiera e di quello che interessa.
Quest'anno, per Expo, abbiamo dato la possibilità, a chi voleva farlo, ai galleristi, di portare più autori su un tema affrontato proprio da Expo, in modo così da alleggerire l'impegno economico e facilitare a loro le cose. Molti hanno proposto temi legati al cibo, ma c'era anche il tema del nutrimento e la cultura femminile, l'energia per la vita e altre questioni. Ci sono degli stand progetto Expo, ma non ne vede tanti, questa era una scusa per permettere ai galleristi di presentare più autori.


Katsushita Hokusai 1760-1849 Papaveri 
(Xilogravure a colori)

Considerazioni personali
Da quanto ha detto Castelli emerge che avere delle competenze culturali in campo artistico possa avere delle ripercussioni positive anche in altri settori. Conoscere la storia dell'arte, saper analizzare un'immagine ed i suoi significati, seguire i propri interessi e le proprie passioni può portare a ragionare in modo da anticipare certe tendenze e sviluppare certi mercati.
La cultura e l'arte possono diventare un'attività redditizia, ma bisogna effettuare investimenti importanti.
Sicuramente, è fondamentale anche creare una rete di relazioni capace di promuovere degli scambi economici e di marketing con coloro che contano ed hanno voce in capitolo in città ed altrove, per diffondere le campagne pubblicitarie più importanti.
E' fuor di dubbio che per Milano il 2015 debba essere a tutti i costi l'anno di Expo.
Aver voluto inserire nelle fotografie della MIA gli argomenti che verranno trattati durante i sei mesi dell'esposizione universale, significa strizzare l'occhio in modo un po' sfacciato nei confronti di una manifestazione che, per ora, ha fatto parlare di sé soltanto per gli scandali legati alla corruzione, alla mala-gestione dell'evento ed ai gravi ritardi per la costruzione del sito che accoglierà la grande Fiera di Rho. 
Il cibo non è propriamente un soggetto fotogenico, averlo voluto inserire forzosamente nelle gallerie d'arte può essere una manovra discutibile ed anche le immagini di questo tipo che ho visto nel padiglione espositivo della nuova Mall milanese, devo dire che non mi hanno molto esaltato.
Il livello della manifestazione è comunque stato superiore agli appuntamenti degli anni precedenti, probabilmente Castelli ha ragione quando dice che approfondire la conoscenza di un autore eleva la qualità delle opere esposte.
Essere sotto le luci della ribalta può essere faticoso perché, inevitabilmente, attira qualche critica, però la MIA, pur essendo una manifestazione ancora giovane, sta contribuendo non poco a far aumentare la considerazione di Milano come capitale italiana della fotografia, dell'arte e, speriamo, anche della cultura.
Tanti auguri a Castelli ed alla MIA ed arrivederci all'anno prossimo. T.G.



L'onestà è reato

Da tempo questo fatto era sotto gli occhi di tutti: essere onesti in mezzo ai delinquenti non ha più molto senso, il mondo ormai è capovolto e tutto, o quasi, funziona all'incontrario.
Eppure, nonostante questa realtà sconsolante, tra i paladini della giustizia vera rimangono Tony Graffio ed un manipolo di sognatori che credono nell'arte e nella cultura come mezzo di riscatto morale e d'indipendenza dalla pressante campagna di controllo mentale, attuata a 360° da chi tira le fila del potere di un mondo triste e decadente.

Affissione dei titoli del Vernacoliere nella vetrina di un'edicola di via Carlo Imbonati

La galera per gli onesti non ci spaventa! Noi di "Frammenti di Cultura" non ci piegheremo al qualunquismo e continueremo ad operare per l'onestà, la verità, la giustizia e la libertà, compresa quella di pensiero e d'espressione (artistica e non).
Proseguiremo ad andare contro corrente mostrandovi le opere più belle ed interessanti degli artisti che escono dai circuiti culturali ufficiali e tutti quei lavori originali e sinceri, meritevoli d'essere raccontati in queste pagine.
L'arte non ha confini, è un linguaggio universale che può riunire le più diverse correnti di pensiero ed estetiche. La bellezza può rendere più gradevole la vita, ma non mancheremo dal mostravi anche forme di contestazione e di comunicazione che si manifestano attraverso codici diversi che propongono contenuti forti e poco conosciuti.
Vi preannuncio che sto pensando, con l'aiuto di un gallerista indipendente di Milano, d'organizzare una mostra collettiva che raccolga alcuni degli artisti più significativi fino ad adesso incontrati e che possa raccogliere anche opere di coloro che hanno qualcosa d'interessante da dire  e si sentono in sintonia col progetto editoriale che stiamo portando avanti.
La finalità di questo progetto espositivo è duplice: da una parte si vuol dar spazio, gratuitamente, a coloro che non sono allineati ad alcuna forma di potere politico o economico, che promuove soltanto gli "amici di...", a sentirsi liberi di partecipare ad un evento spontaneo ed "ai confini della legalità". Dall'altra si vuol dar la possibilità a coloro che seguono questo blog d'avere un'occasione d'incontro e di scambio d'opinioni, dal vivo, con gli artisti ed il gruppo operativo che si sta creando attorno a Tony Graffio.

Non esitate a proporre i vostri lavori, le vostre idee e le vostre parole a: graffiti.a.milano@gmail.com